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lunedì 3 novembre 2008

Fallimento Perugia: tolto l'ordine di carcerazione per Luciano Gaucci

Il gup del tribunale di Perugia Paolo Micheli ha revocato l' ordinanza di custodia cautelare in carcere per Luciano Gaucci, emessa nel 2005 nell' ambito della inchiesta sul fallimento del Perugia calcio. Gaucci non fu arrestato perche' fuggito a Santo Domingo dove vive tuttora. Il gup ha accolto l' istanza di revoca del suo difensore Angelo Sammarco.
L' istanza di revoca era stata presentata per gravi problemi di salute del fratello del ex patron del Perugia. Il pm Antonella Duchini aveva espresso parere favorevole ed il gup Paolo Micheli, lo stesso del processo per l' uccisione della studentessa inglese Meredith Kercher, ha disposto la revoca dell' ordinanza. Gaucci e' accusato di bancarotta fraudolenta ed altri reati. Con lui sono imputati i figli Alessandro e Riccardo Gaucci, che invece erano stati entrambi arrestati e poi scarcerati. Per il 26 novembre prossimo e' fissata l' udienza nella quale il gup dovra' decidere se accogliere la richiesta di patteggiamento alla condanna a tre anni di reclusione per Luciano Gaucci.
Fonte: Ansa

lunedì 17 marzo 2008

il transatlantico affonda...ma nessuno se ne importa

http://www.diario.it/home_diario.php?page=cn03110006

Diario 26 settembre 2003

Il Nostro Inviato dopo il novantesimo minuto
Titanic Calcio
Sperando che tutto non si trasformi in sangue e botte, il nostro football si avvia comunque al disastro. Un caso aziendale da studiare
di Marco Liguori e Salvatore Napolitano

Siete un po’ a disagio per gli scontri di Avellino, per il ripescaggio della Fiorentina, per il disservizio di Sky, oltreché per le prestazioni della vostra squadra? Tranquillizzatevi: non avete ancora visto niente. Il calcio prossimo venturo vedrà sempre di più l’intervento di polizia antisommossa, tifosi «professionisti», presidenti «politici», giudici e avvocati. Tutto deriva, spiegano i nostri autori, dal perverso intreccio tra una legge che definisce le società di calcio come «società per azioni a fine di lucro»; le illusioni del mercato televisivo e la fine, prevedibile, di un concetto noto come «clausola compromissoria», ovvero una sorta di gentlemen’s agreement ormai destinato ad essere sbranato dalle mute della giustizia ordinaria. Leggere per credere. Una casistica possibile.

Assomiglia sempre di più al Titanic. Mentre il transatlantico si avvicina pericolosamente agli scogli, che fra l’altro lasciano morti giovani tifosi, a bordo si continua a far festa: tanto la nave è indistruttibile. È questo ciò che pensano, con encomiabile ottimismo, il comandante ed i suoi tanti attendenti. Franco Carraro (presidente della Figc, il governo del calcio), Adriano Galliani (amministratore delegato del Milan, ma anche presidente della Lega calcio, la Confindustria del pallone), Antonio Matarrese (vicepresidente della Lega calcio), Antonio Giraudo (amministratore delegato della Juventus), Massimo Moratti (presidente dell’Inter), Franco Sensi (presidente della Roma) appaiono imperturbabili. Il loro atteggiamento si basa sui tanti pericolosi scogli evitati di recente: il doping, i passaporti falsi, gli orologi d’oro regalati agli arbitri, i bilanci taroccati, le fidejussioni false. Qualcuno della ciurma ha però cominciato, sia pure con grave ritardo, a preoccuparsi. Ma nessuno gli dà ascolto. Come è possibile che un transatlantico di tal genere, che rappresenta una delle maggiori industrie del Paese, stia puntando diritto verso l’autoaffondamento? Come è possibile che i dirigenti calcistici, che sono tutti imprenditori di primo piano, sottovalutino a tal punto il problema?

Il cambiamento di rotta probabilmente decisivo è cominciato attorno alla metà degli Anni Novanta. Certo, già una decina di anni prima il calcio aveva cominciato a trasformarsi sempre più in un fenomeno televisivo. Accadde quando Silvio Berlusconi divenne proprietario del Milan e cominciò a trasmettere in diretta sulle sue reti televisive le amichevoli estive: costava molto meno che produrre un qualunque varietà di quart’ordine e otteneva più ascolti e, dunque, più pubblicità. Ossia, più soldi. Ma la spinta finale venne con il varo delle televisioni a pagamento. Le società più ricche decisero che era giunto il momento di smettere sia di vendere in modo collettivo i diritti di trasmissione delle partite, che di ripartire proporzionalmente gli introiti tra le 38 società di A e B. Così ebbe inizio la contrattazione singola, in modo che ciascuno intascasse i soldi relativi ai suoi diritti. Arrivò un fiume di denaro, ma non per tutti: com’era ampiamente prevedibile, i grandi arraffarono quasi tutta la torta, mentre i piccoli si sono accontentati delle briciole. In cifre, ciò vuol dire che nella scorsa stagione agonistica la Juventus ha incassato da Tele+ per la cessione dei diritti criptati delle sue 17 partite casalinghe circa 55 milioni di euro, Inter e Milan circa 50 ciascuno. Mentre Como, Empoli, Modena e Piacenza ne hanno ricevuti appena 5,6 a testa. Ma i presidenti, con lungimiranza pari a zero, hanno sempre versato tutti i maggiori ricavi nelle tasche dei calciatori e dei loro procuratori, per strapparsi a prezzi folli degli onesti pedatori. Il risultato è che il cospicuo incremento del fatturato è servito soltanto ad aggravare i buchi di bilancio del sistema. Al termine della stagione 1995-1996 la perdita operativa della serie A sfiorava i 150 milioni di euro. Due anni dopo era salita a 222 milioni. Al termine della stagione 1999-2000 era balzata a 406 milioni, per poi quasi raddoppiare in una sola stagione: 710 milioni al 30 giugno 2001. Come è noto, le società di calcio chiudono il loro esercizio al 30 giugno e non al 31 dicembre. Nel frattempo, esse erano state trasformate in «società per azioni con fini di lucro», in seguito alla legge Veltroni del 1996. Questa trasformazione, una prova di forza con il governo dell’Ulivo e di Rifondazione, fu una prova ampiamente vinta. All’uopo, per la prima volta nella storia del calcio, le società di A e B decisero di varare un calendario dei campionati monco: soltanto dieci giornate. Il governo corse frettolosamente ai ripari, varando addirittura un decreto legge per accontentare i due principali assertori della necessità di introdurre il «fine di lucro»: Antonio Giraudo e Adriano Galliani.

Il decreto 485 fu varato il 20 settembre del 1996 e convertito nella legge 586 il 18 novembre. Quanto ai presidenti delle società minori, bastò l’evocazione del termine «lucro» per farne brillare gli occhi. Ma la trasformazione in società a fini di lucro ha di fatto reso vano qualunque strumento che voglia impedire il ricorso alla giustizia ordinaria per difendere i propri interessi. Nell’ordinamento calcistico tale strumento si chiama «clausola compromissoria». Quest’estate tutti si sono resi conto che tale clausola non è altro che una sorta di patto tra gentiluomini, che dunque funziona se nessuno riceve qualche danno vero. E in un settore in cui i costi sono esorbitanti, i soldi finiti e le manovre dei dirigenti niente affatto limpide, non c’è nulla di più semplice che essere danneggiati. Qual è la soluzione che la Federcalcio ha escogitato e che vorrebbe attuare, assecondata in questo suo piano squinternato da qualche autorevole firma del giornalismo sportivo? È il rafforzamento della clausola compromissoria: ossia, se ricorri al giudice ordinario, ti penalizzo in classifica. Farebbe ridere se non fosse un piano nel quale i vertici del calcio credono: peccato che l’articolo 24 della Costituzione, che vale più di qualunque norma che possa essere varata, sancisce che chiunque può agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi. Vediamo dunque ciò che potrebbe accadere in un futuro neanche tanto lontano, ipotizzando casi non così distanti dalla realtà.

RETROCESSIONE? NO, GRAZIE! Nulla di più facile che si riproponga una situazione non dissimile da quella verificatasi quest’anno all’Atalanta, quart’ultima e retrocessa in B come da regolamento. Ipotizziamo che la federazione accetti l’iscrizione di un’altra squadra, nonostante essa non soddisfi i parametri stabiliti dalle norme calcistiche, obbligatori per poter partecipare al campionato di competenza. Il danno economico per la retrocessa è immediato: meno diritti tv, meno sponsorizzazioni, meno incassi. Una circostanza tale da poterne mettere in discussione la sopravvivenza stessa. Citare per il risarcimento dei danni davanti al giudice ordinario la federazione potrebbe essere considerata la strada ultima e obbligata per tutelare il patrimonio.

IL CONFLITTO DI INTERESSI DEL GIOCATORE-AZIONISTA. Saadi Al Gheddafi è il figlio trentenne del colonnello libico: è un giovanotto simpatico, laureato in ingegneria, che da questa stagione gioca nel Perugia. Ma è anche azionista della Juventus con il 7,5 per cento tramite la finanziaria di famiglia Lafico, nonché membro del consiglio di amministrazione dei bianconeri. Immaginiamoci cosa succederebbe se, per un malaugurato caso, si giocasse un Perugia-Juventus decisivo per gli umbri ai fini di un’ipotetica qualificazione ad una coppa internazionale, e i giocatori del Perugia si mostrassero morbidi tanto da perdere l’incontro. Il presidente Luciano Gaucci potrebbe intentare una causa per danni. Resta un dubbio: solo a Gheddafi junior, oppure a tutti i suoi giocatori o anche all’intero cda della Juventus, ritenendolo corresponsabile?

IN COPPA CI VADO IO. NO, TU NO! L’ipotesi è aggrovigliata: la squadra vice-campione d’Italia è qualificata di diritto per la Coppa dei Campioni. Ma la Covisoc, la Commissione della federazione che vigila sui bilanci delle società calcistiche e che deve verificare il rispetto dei criteri obbligatori per l’ammissione, chiude un occhio e la iscrive al campionato dell’anno successivo, nonostante non soddisfi i parametri richiesti dalle norme federali. Non si fa qui riferimento alla Lazio soltanto perché non è arrivata seconda. La terza classificata subisce un danno immediato per la mancata qualificazione diretta alla Coppa dei Campioni (vi accedono solo le prime due del campionato): infatti corre il rischio di essere eliminata al turno preliminare e deve anticipare la preparazione perché tale turno si gioca a metà agosto. Ma anche la quinta classificata subisce un danno perché non ha affatto la possibilità di accedere alla Coppa dei Campioni (per l’Italia sono previsti al massimo quattro posti). E tale partecipazione vale, solo come ingresso alla prima fase, almeno una quindicina di milioni di euro. Non è mica finita: anche l’ottava classificata subisce un danno, perché il settimo posto le avrebbe dato il diritto di partecipare alla Coppa Uefa. E naturalmente riceve un danno anche la quart’ultima, perché eviterebbe la retrocessione in serie B. Si aprirebbe così la via di una serie di richieste di risarcimenti a catena nei confronti della federazione.

UN AGGIOTAGGIO PARTICOLARE. L’aggiotaggio è un tipo di reato che riguarda le società quotate in Borsa e si riferisce all’utilizzazione di notizie riservate o alla diffusione di notizie false per indirizzare l’andamento del titolo sul mercato di Piazza Affari. Ma c’è un caso limite che li supera tutti: ipotizzando che i calciatori di una società siano azionisti e stiano per disputare una partita decisiva, essi stessi potrebbero decidere a priori il risultato negativo per la propria squadra e speculare al ribasso con le azioni in loro possesso, traendone profitto. Infatti, le quotazioni di Borsa dipendono strettamente dall’andamento sportivo, in quanto esso influenza a sua volta, e in modo consistente, il fatturato della società. In tal caso, si configurerebbe non tanto l’utilizzazione di notizie riservate, ma addirittura la creazione della notizia. Se tale circostanza venisse alla luce, è facile ipotizzare il ricorso alla magistratura da parte di un azionista che lamentasse il danno patrimoniale.

IL CALCIOMERCATO DIVENTA UNA VIA CRUCIS. Un’altra questione giuridica riguarda il rapporto tra le numerose notizie, vere o false che siano, della campagna acquisti e vendite dei giocatori. Ciò tocca direttamente le società calcistiche quotate in Borsa, che attualmente sono tre: Lazio, Roma e Juventus. Ogni informazione pubblicata dalle pagine sportive dei giornali riguardante le possibili acquisizioni oppure cessioni di giocatori può influenzare notevolmente i corsi dei titoli sul listino. Nel caso in cui tali notizie non siano rispondenti al vero, non faranno soltanto sparire i sogni dei tifosi, ma alleggeriranno i portafogli degli azionisti. Per tutte le società quotate a Piazza Affari vige il divieto di divulgare notizie riservate, riguardanti eventuali trattative: le società di calcio non sfuggono a questa regola e sono tenute ad emettere un comunicato solo nel momento dell’effettiva conclusione degli affari. Violare questa norma può costare molto caro: si può infatti incorrere nell’articolo 501 del codice penale, che contempla il reato di aggiotaggio. Tale norma prevede che «chiunque al fine di turbare il mercato interno dei valori o delle merci, pubblica o altrimenti divulga notizie false, esagerate o tendenziose o adopera altri artifici atti a cagionare un aumento o una diminuzione del prezzo delle merci, ovvero dei valori ammessi nelle liste di Borsa o negoziabili nel pubblico mercato, è punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa da 516 a 25.822 euro». In questo caso potrebbe essere ipotizzata una doppia responsabilità: quella del giornale e quella della società calcistica. La Consob, l’organo di vigilanza dei mercati finanziari, è deputata a verificare gli andamenti anomali dei titoli e a denunciarne le ipotesi di reato alla Procura della Repubblica competente. Ma l’eventuale ipotesi di reato potrebbe essere denunciata anche da un piccolo azionista, allo scopo di rivalersi per il risarcimento del danno in solido verso il giornale e la società. Ipotizziamo a tal riguardo che un quotidiano riporti la notizia riguardante le trattative di una squadra quotata per l’acquisto di un plurititolato e celeberrimo calciatore straniero. Il titolo della società salirebbe rapidamente sul listino, invogliando numerosi risparmiatori all’acquisto. In seguito, la notizia si rivela completamente falsa e il valore delle azioni crolla. Chi avesse acquistato sulle voci false riportate dal quotidiano potrebbe citarlo per farsi risarcire il danno.

SONO EXTRACOMUNITARIO E ME NE VANTO. Ogni tanto, la federazione e la Lega assurgono a legislatori e danno vita a mostri giuridici: era già successo negli anni Novanta con il blocco dell’utilizzazione dei calciatori stranieri. Arrivò un giorno un carneade di nome Bosman, ricorse alla giustizia europea ed ebbe ragione. Pare che la lezione non sia servita. Adesso c’è il blocco totale dell’utilizzo di nuovi extracomunitari. Fino agli ultimi mondiali del 2002 non se ne potevano tesserare più di tre per squadra. Supponiamo che un calciatore, a seguito di questo blocco, sia costretto ad andarsene dalla squadra in cui milita, perché, nel frattempo, è stato acquistato un nuovo extra-comunitario. Se non si volesse ridurre la questione come nel passato, e cioè trovandogli rapidamente un avo comunitario, il calciatore potrebbe ricorrere tranquillamente alla giustizia ordinaria: vale ancora l’articolo 3 della Costituzione che sancisce che tutti «hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali».

LA NEBBIA MI DANNEGGIA. È già accaduto in passato, e c’è da scommettere che accadrà nuovamente, che si siano giocate partite in condizioni di visibilità non regolamentari. Soprattutto a causa della nebbia. Eppure dovrebbe essere impossibile sbagliare: la norma dice che l’arbitro, posizionandosi sulla linea di porta, debba vedere l’altra porta del campo di gioco. Da quando il calcio è diventato un fenomeno essenzialmente televisivo, e da quando c’è chi paga per vedere le partite tramite le trasmissioni criptate, è fiorita una nuova attività: i locali pubblici possono proiettare la partita su grandi schermi. Per farlo, devono abbonarsi alla tv, fino all’anno passato Tele+ o Stream, da quest’anno Sky, pagando un canone annuo. In cambio aumentano la clientela, interessata al calcio. Ma se la partita venisse disputata nonostante la nebbia fuori dai limiti, il locale pubblico ne riceverebbe un danno economico perché nessun cliente pagherebbe dei soldi per non vedere nulla. Ne scaturirebbe una reazione a catena: causa per danni del locale a Sky, che a sua volta si dovrebbe rivalere sulla federazione, dalla quale dipendono gli arbitri.

LA CLAUSOLA COMPROMISSORIA TI COMPROMETTERÀ. Il governo del pallone sta lavorando al rafforzamento della clausola compromissoria: chi ricorrerà al giudice ordinario sarà penalizzato in classifica. E’ il solito tentativo velleitario di risolvere i problemi. Non esiste alcuna costrizione, né alcuna forma coercitiva che possa impedire a chicchessia di adire al giudice ordinario quando si tratti di difendersi da un danno patrimoniale. Ipotizzando, dunque, che qualche società ricorra e venga colpita dalla giustizia sportiva con una penalizzazione in classifica, il caso più usuale è facilmente intuibile: se tale penalizzazione dovesse modificare in modo sostanziale la classifica, facendo ad esempio retrocedere una squadra e non un’altra, o qualificando per una coppa internazionale una squadra in luogo di un’altra, la federazione verrebbe sommersa di cause per danni.


E dalla «trasferta di Avellino» comincerà un nuovo mito...

Lunedì pomeriggio, mentre chiudevamo questo articolo, è stata data la notizia della morte di Sergio Ercolano, giovane tifoso del Napoli, precipitato da una fragile tettoia di plexiglas allo stadio Partenio di Avellino, prima della partita. Come tutti ormai sanno, centinaia
di tifosi del Napoli in trasferta organizzata su diversi pullman che evidentemente la polizia non aveva notato, avevano cercato, come molto spesso succede, di entrare allo stadio senza biglietto. E, come tutti ormai sanno, quel corpo precipitato e l’ambulanza che non arrivava hanno dato origine a furiosi scontri con la polizia, che è battuta in ritirata. La partita non si è giocata, la Lega Calcio l’ha rivinviata «a data da destinarsi», ma il presidente ombra dell’Avellino, Pasquale Casillo, rivendica i tre punti a tavolino. (La speculazione sui morti è uno degli aspetti del calcio moderno, inaugurato dalla Juventus allo stadio Heysel nel 1985, quando
una partita che chiunque avrebbe sospeso venne fatta giocare e vincere, in nome dei morti juventini).
Commentando l’episodio di Avellino, tutti i giornali e le trasmissioni televisive hanno bollato i tifosi del Napoli come «bestie» e «delinquenti», chiedendo pene severe e rievocando il pugno duro dell’inglese Margaret Thatcher contro gli hooligans. Ma sarà difficile che questo succeda, perché nel mondo del calcio (e del governo dei ripescaggi) nessuno ha più autorità per imporre alcunché. Continueranno quindi le «trasferte organizzate» e si scontreranno con la subcultura delle caserme delle Squadre mobili della polizia (che hanno avuto nell’ultimo campionato 612 feriti, raddoppiati dall’anno prima), in un circolo non virtuoso in cui si rivaleggia a chi è più macho e più fascista. Ci saranno altre tacche sui manganelli e sulle bandiere, e tanto pane per i sociologi e per Porta a Porta. Avellino non è altro di uno dei tanti risultati del «calcio che cambia»; quello che bada solo ai soldi e che usa i tifosi come salariati precari: utilissimi, ma ignobili.
In questo articolo Marco Liguori e Salvatore Napolitano raccontano le trasformazioni di questo sport e prevedono un futuro di bancarotte, contenziosi, liti giudiziarie, pressioni politiche. In mezzo a tutto ciò, ogni tanto qualcuno crepa. Di Sergio Ercolano, e delle colpe della sua morte, sentiremo parlare a lungo. Forse non in tutta Italia, ma sicuramente in Campania.

Scompare nel 2003 il pegno Capitalia sul Perugia

http://www.fiorentina.it/notizia.asp?IDNotizia=23041

2/7/2004

"Gaucci dei misteri" continua l'inchiesta di M.Liguori


Che fine ha fatto il 99,53% dell’Associazione Calcio Perugia detenuto in pegno da Capitalia? Guardando la tabella delle “partecipazioni rilevanti in società non quotate” posta a pagina 148 del bilancio 2003 del gruppo bancario presieduto da Cesare Geronzi, ci si accorge che tale quota è scomparsa. Questo pegno connesso ad operazioni di credito, compariva almeno dal bilancio del 1999 della Banca di Roma, uno degli istituti che sono confluiti in Capitalia nel 2002 e a cui la banca capitolina lo ha portato in “dote”. Fino a due anni fa era presente nel documento imposto alle società quotate dalla delibera 11971/99 della Consob: nell’ultimo esercizio finanziario della banca è invece svanito d’incanto.
Sulla vicenda della quota di maggioranza del Perugia, Capitalia mantiene il più stretto riserbo. Il gruppo bancario, interpellato da Panorama Economy, ha spiegato soltanto che tale partecipazione presa in pegno potrebbe essere stata ridotta oppure dismessa completamente. Infatti, la delibera della Commissione di vigilanza impone di dichiarare solamente le partecipazioni in imprese non quotate superiori al 10%: dunque, non è dato sapere se la quota detenuta nella società calcistica umbra sia stata portata al di sotto di detta soglia oppure sia stata completamente abbandonata dall’istituto, tramite l’eliminazione del pegno. Ma perché la società calcistica presieduta da Luciano Gaucci ha dato in pegno, almeno per quattro anni, il suo pacchetto di controllo? Mistero! Capitalia non ha voluto fornire spiegazioni in merito, adducendo la necessità di tutelare la privacy del proprio cliente. Eppure l’eventuale cancellazione del pegno non è una questione da poco, visto che era legato alla concessione di un prestito bancario rilasciato da una banca quotata a Piazza Affari, che dovrebbe rendere conto, in omaggio al principio della trasparenza borsistica, delle proprie operazoni al mercato. Capitalia non ha voluto neppure rendere noto l’importo della linea di credito concessa a fronte del pegno. Neppure nel bilancio del club perugino, chiuso al 30 giugno 2003, si rilevano tracce dell’eventuale spignoramento.
Ma c’è anche un altro mistero. Ufficiosamente, si individua sempre il presidente Gaucci come l’azionista di riferimento del Perugia. Tuttavia, stando alle visure soci della Camera di Commercio, il suo nome non compare. Infatti, il 99,53% del Perugia, affidato sino al 2002 in pegno a Capitalia, è esattamente la percentuale detenuta dalla Kilpeck Overseas Corp., una società di diritto estero su cui non si può ufficialmente conoscere chi siano i suoi azionisti.

Marco Liguori


La vendita del Catania
Nonostante la fresca retrocessione in serie B, dopo aver perso lo spareggio con la Fiorentina il 20 giugno scorso,Luciano Gaucci non sembrerebbe intenzionato a vendere il Perugia. Di certo c’è solo al momento che alcuni giorni fa il numero uno perugino ha venduto l’intero pacchetto azionario del Calcio Catania alla Finaria, società controllata da Antonino Pulivirenti, attuale presidente dell’Acireale. La Finaria e' la holding che detiene la compagnia aerea siciliana Windjet: inoltre Pulvirenti e' proprietario della Meridi, società operante nella grande distribuzione organizzata. Particolare curioso: anche nel caso del Catania, la famiglia Gaucci non compariva nell'elenco soci della Camera di Commercio. Infatti, la quota di maggioranza venduta, pari al 74,5%, era controllata da una società di diritto estero, la Audette Holdings Corp. Il presidente uscente del Catania era però uno dei figli di Gaucci, Riccardo. Gli altri quattro soci avevano in carico 12.750 azioni: tre di essi sono membri della famiglia Massimino, l'ex proprietario del Catania prima dell'era Gaucci.

M. L.

Fonte settimanale Economy

domenica 17 febbraio 2008

Riccardo senza soldi

http://qn.quotidiano.net/conti_del_pallone_2007/2007/04/26/8273-riccardo_gaucci_nullatenente.shtml

FOCUS

"Riccardo Gaucci è nullatenente"

Riccardo Gaucci è "nullatenente". L' incredibile affermazione è stata riportata a pagina 17 della nota integrativa del Catania. In essa è riportata l'istituzione nel 2004/05 di «un fondo rischi per liti pari a 2,5 milioni di euro, a fronte del contenzioso esistente nei confronti del precedente presidente della società» ossia di Gaucci. La vertenza legale è stata intrapresa per «operazioni intraprese dallo stesso nel periodo della propria gestione». Nonostante l'attivazione dei legali della società etnea per recuperare il credito nei confronti dell'ex presidente, nello mese di maggio è arrivata la sgradita sorpresa: il giudizio è stato estinto poiché appunto «il debitore risulta essere nullatenente». Al Catania non è rimasto altro che «svalutare il suddetto credito mediante il totale utilizzo del fondo per rischi e oneri già accantonato».
di Marco Liguori

sabato 16 febbraio 2008

Cronache dal fallimento del vecchio "Ciuccio"

La Voce della Campania luglio 2006

Calcio Napoli - tutto il marcio minuto x minuto

di Marco Liguori

«Un errore colossale, un danno enorme». Così Nicola Rascio, curatore fallimentare della Società Sportiva Calcio Napoli (Sscn), ha definito nelle 39 pagine della sua prima relazione del maggio 2005 il fallimento della società sportiva napoletana, dichiarato dalla VII sezione del tribunale di Napoli il 30 luglio 2004, quando militava in serie B. Un durissimo “j’accuse” tuttora al vaglio della Procura della Repubblica di Napoli. I pubblici ministeri Vincenzo Piscitelli e Fabio Massimo De Mauro aprirono, nel periodo successivo al fallimento, un’inchiesta. La relazione del curatore è in parte coperta da “omissis”: non risultano leggibili le pagine da 3 a 17, parzialmente la 35, e quelle da 36 a 39. Molto probabilmente, sono sezioni criptate dall’indagine penale in corso.
Secondo indiscrezioni, risultano indagati dalla Procura tre ex presidenti per l’ipotesi di bancarotta fraudolenta: Salvatore Naldi, Corrado Ferlaino e Giorgio Corbelli. Nello scorso febbraio la guardia di Finanza eseguì il sequestro di materiale nelle abitazioni e negli uffici dei tre indagati. Le voci da Palazzo di giustizia riportano che l’indagine dovrebbe concludersi in tempi abbastanza stretti, al massimo entro settembre-ottobre. Inoltre, contro il consiglio di amministrazione è stata anche promossa un’azione di responsabilità. Rascio racconta che secondo la situazione economico-patrimoniale al 31 luglio 2004, la società era sepolta sotto 64 milioni di euro di debiti, con la conseguente revoca dell’affiliazione al campionato di serie B. Inoltre, il curatore aggiunge che a partire da novembre 2003 cessò definitivamente la corresponsione alla maggior parte dei dipendenti tesserati: secondo i prospetti consegnati dall'amministratore unico Paolo Bellamio, alla data del fallimento i relativi crediti privilegiati verso il Napoli ammontavano a più di 13 milioni di euro lordi, cui vanno aggiunte le retribuzioni non percepite dai dipendenti non tesserati e dai co.co.co da aprile a maggio 2004.
«La formazione del debito è illustrata nella relazione della coadiutrice - spiega il curatore - dottoressa Giovanna Carrieri, da cui emerge la cospicua entità dei debiti, specie tributari, risalenti alla gestione Corbelli-Ferlaino». La cancellazione del Napoli dal campionato, secondo il curatore, avrebbe potuto essere evitata con il fallimento dichiarato nel corso della stagione sportiva 2003-2004. Ma la situazione risultava critica già nel dicembre del 2002, dopo che era terminato il periodo di “reggenza” dell’amministratore giudiziario, Gustavo Minervini. Il curatore osserva che «era scaduta da più di quattro mesi la concessione» per il centro sportivo di Marianella «ed era pure pervenuto il preannunciato diniego di nuova proroga». Rascio evidenzia ancora che «sarebbe bastata la doverosa appostazione in conto economico di una svalutazione pari al 7% della relativa immobilizzazione al 30/6/2002 per portare la perdita di periodo a euro 8.984.124 e far emergere così, tenuto conto delle perdite per 222.070 euro già registrate tra il 31/5 e il 30/6 portate a nuovo, la perdita dell’intero capitale sociale». Ciò comportava, per il Codice Civile, la convocazione senza indugio dell’assemblea per la ricapitalizzazione oppure lo scioglimento del Napoli. il napoli si poteva salvare Sul danno arrecato dal crack al Napoli, Rascio è molto puntuale e preciso nella descrizione. Il curatore ha spiegato che le Norme organizzative della Federazione italiana giuoco calcio (Noif) prevedono «che in caso di fallimento alla società sportiva viene revocata l’affiliazione con la duplice immediata conseguenza dello svincolo di autorità dei calciatori tesserati e della perdita del titolo sportivo». La situazione descritta nelle Noif ricalca esattamente ciò che è accaduto al vecchio Napoli. Invece, ha sottolineato Rascio, se il fallimento fosse stato dichiarato «nel corso della stagione sportiva e il tribunale dispone la continuità temporanea dell’esercizio dell’impresa», la revoca del titolo sportivo, necessario per la partecipazione ai campionati, «produce effetto solo al termine della stagione sportiva». In pratica, se il fallimento interviene nel corso del campionato «è possibile cedere l’azienda arricchita (sia pure subordinatamente alla delibera del presidente Figc) dal titolo sportivo ed eventualmente dai contratti con i tesserati, come avvenuto ad esempio nel caso del fallimento del Calcio Monza».
Quindi, il Napoli si sarebbe potuto salvare: ma ciò non avvenne, poiché il crack ci fu dopo la conclusione della stagione (30 giugno 2004). «Prima che il Napoli sia dichiarato fallito - sottolinea Rascio - la stagione sportiva 2003/04 avrà termine e, come previsto dal collegio sindacale fin dalla riunione del 31/10/2003, l’iscrizione al campionato successivo verrà negata dalla Figc per la carenza dei prescritti requisiti economici-finanziari». Il curatore ha sottolineato che il danno «va ben al di là del residuo, sempre opinabile, valore delle immobilizzazioni relative alle prestazioni sportive dei calciatori, coinvolgendo appunto lo stesso titolo sportivo di serie B». Secondo il bilancio esteso dal consiglio d’amministrazione della Ssc Napoli al 31/3/04, il valore delle immobilizzazioni, al netto della svalutazione della legge “salvacalcio”, era pari a 7,9 milioni. Ma nella relazione il curatore ha rilevato alcuni «indici significativi per la determinazione del pregiudizio arrecato alla società e ai creditori». Tra questi rientra il contratto di affitto d’azienda «stipulato dalla Sscn con Luciano Gaucci il 13/7/2004, sospensivamente condizionato all’iscrizione al campionato di serie B nella stagione 2004/05». Solo alla scadenza del quinto anno era prevista nel contratto l’opzione per l’acquisto del Napoli «al prezzo di 21 milioni, che si vanno ad aggiungere ai 25 milioni corrisposti a titolo di canone». Per Rascio è pregiudizievole anche il contratto «sottoscritto da Gaucci e Napoli Sportiva per l’acquisto dal fallimento della Sscn, non comprensiva nè degli immobili, nè dei contratti dei tesserati» al prezzo di 42,4 milioni in caso di iscrizione in serie B e di 9 milioni in C1.
COLPI DI SOCCER
Ma il curatore ha giudicato negativamente anche l’offerta del 31 agosto 2004 della Napoli Soccer, presieduta da Aurelio De Laurentiis, accompagnata da assegni circolari per 31,25 milioni. Vi rientra anche il contratto di cessione di ramo di azienda (stipulato il 10/9/04) «con la quale la Napoli Soccer acquista dal fallimento della Sscn il ramo di azienda avente ad oggetto l’esercizio dell’attività sportiva per il corrispettivo di 29,25 milioni, ovvero di 47,25 milioni in ragione dell’iscrizione, rispettivamente, al campionato di serie C1 o di serie B per la stagione sportiva 2004/05». Nella relazione sono riportate anche numerose operazioni censurate dal collegio sindacale della società azzurra. Tra esse si segnala un finanziamento di 820mila euro concesso dal Napoli alla Saf, con scadenza 14/11/02 e restituito il 19/12/02. L’operazione, non autorizzata dal cda, è stata svolta in conflitto d’interesse: «le due società sono rappresentate legalmente dal medesimo soggetto» ossia Salvatore Naldi, all’epoca presidente della Saf e del Napoli. Sempre riguardo alla Saf, i sindaci hanno rilevato un pagamento di 178mila euro più iva effettuato a suo favore il 19 novembre 2003 «per utilizzo di personale presso la Sscn in virtù di contratto non disponibile presso la società».
Questo contratto aveva ad oggetto «il distacco per un anno del dott. Nicola De Leva presso Sscn con compiti di direttore generale secondo quanto disposto dal cda del 25/2/2003: il costo mensile per Sscn è di ben 22.250 euro (iva esclusa)». Riguardo a questa voce, le scritture contabili riportano tre pagamenti: 213.600 euro il 19 novembre 2003, 80.100 euro il 3 febbraio 2004 e 7.500 euro il primo aprile 2004, tutti effettuati su disposizione di Salvatore Naldi. Il curatore ritiene significativo che nello stesso periodo De Leva abbia con il Napoli un contratto di collaborazione coordinata e continuativa per un corrispettivo netto di 25mila euro, oltre a un premio di fine rapporto del 13,5%. Le scritture contabili rilevano pagamenti mensili in favore di Di Leva per complessivi 28.847,39 euro, con un costo lordo di 40.247,10 euro.
VISSI D'ARTIS
Un’altra anomalia riguarda un «pagamento di 350mila euro in data 8/9/03 a titolo di caparra penitenziale per un contratto di somministrazione di servizi alberghieri» effettuato a favore di Hotel Mediterraneo-Cerc, il cui capitale appartiene a Salvatore Naldi, che ne era anche presidente. Il curatore ha rinvenuto presso la sede del Napoli un contratto del 16 settembre 2003 stipulato da Salvatore Naldi per conto della società azzurra con la Artis Consulting, avente ad oggetto «l’incarico di svolgere in favore della società un’attività di consulenza finalizzata al risanamento del Napoli» al “modico” prezzo annuo di 130mila euro più iva. La Artis (acronimo di Alternative-Risk-Transfer-Integraded-Solutions) è una srl con 10mila euro di capitale sociale: ne è amministratore unico e direttore generale Giovanna Russo, che ne detiene il 52%, mentre Maria Soledad Agretto è al 48%. La Russo è definita dalle cronache dei quotidiani dell'epoca come «consulente di Salvatore Naldi». Rascio sottolinea ben tre singolarità dell'accordo Napoli-Artis. Per lo svolgimento dell’incarico è consentito ad Artis «di avvalersi di professionisti e/o società specialistiche da essa insindacabilmente designati e retribuiti previa messa a disposizione di corrispondente fondo spesa da parte di Sscn». Per tutta la durata triennale del contratto, nonostante all’articolo 5 venga indicato che sia «rescindibile da ambo le parti in ogni momento», il Napoli «si impegna a non recedere sino alla scadenza, obbligandosi in caso contrario a corrispondere una somma pari al residuo corrispettivo contrattuale maggiorato del 2%».
Ma il curatore rileva due circostanze ancor più gravi. La prima riguarda il fatto che «Artis viene costituita il 15/9/2003, dunque appositamente per ricevere i “benefici” del contratto stipulato l’indomani con Sscn». Inoltre, «nello stesso periodo in cui Sscn - scrive Rascio - non riesce a soddisfare i crediti privilegiati dei dipendenti tesserati, Artis riceveva, anche su espressi ordini del presidente Naldi, tre pagamenti per 14.950 euro in data 3/11/2003, per 84mila euro in data 18/11/2003 e per 30mila euro in data 23/2/2004». A ciò bisogna aggiungere due pagamenti per complessivi 98.950 euro in favore della Artis, rilevati dal collegio sindacale del Napoli, a fronte di fatture in acconto per “consulenza risk management”, senza che «in sede siano disponibili nè il contratto nè l’eventuale risultato scritto della consulenza».
PARADISI FISCALI
I sindaci denunciano anche il persistente mancato versamento dei residui 7/10 dell’aumento di capitale sottoscritto il 17 luglio 2003 dal socio di maggioranza, la società lussemburghese Napoli Calcio Sa, e l’inerzia del consiglio di amministrazione, «che non ha dato seguito alla diffida ex articolo 2344 codice civile pubblicata in Gazzetta Ufficiale fin dal 13/11/2003». La norma prevede che, decorsi quindici giorni dalla pubblicazione sulla Gazzetta, se il socio non esegue il pagamento delle quote dovute gli amministratori possano vendere le azioni a suo rischio e per suo conto, a mezzo di un istituto di credito. Proprio riguardo alla rimanente somma dovuta, pari a 3,36 milioni, per l’aumento di capitale dalla Napoli Calcio Sa il curatore ha rilevato che nella riunione del cda del 3 febbraio 2004 fu deliberato «di dare mandato al legale di fiducia per ottenere il pagamento». Nonostante la conclamata situazione di dissesto del Napoli e il parere sfavorevole dei sindaci, il consiglio deliberò i compensi per i consiglieri e anche le retribuizioni per l’attività pregressa. Soltanto queste ultime saranno incassate dai membri della sfortunata società azzurra: 200mila euro al presidente Naldi per compenso dal 1/7/2002 al 3/2/2004, 35mila euro all’amministratore delegato Luigi Albisinni per incarico dal luglio 2002 al gennaio 2004 e 10.240 euro al vicepresidente Bruno Matera per compenso dal luglio 2002 al dicembre 2003. Su questi pagamenti grava la chiosa finale del curatore fallimentare: "la natura privilegiata del cui credito è quantomeno discutibile".
Affari di famiglia
Nella vicenda del "ciuccio-crack" grava anche un macroscopico intreccio familiare. Secondo la relazione del curatore fallimentare, nell’aprile 2004 il collegio sindacale ha rilevato "la stipula, in conflitto d’interessi, di due contratti con Napoli Service Promotion e uno con Napoli Team relativi allo sfruttamento del marchio Sscn e ritenuti pregiudizievoli per Sscn". Tutte le scritture sono state firmate da Salvatore Naldi, quale presidente del Napoli, e da suo figlio Cesare, legale rappresentante delle due controparti. Il contratto con la Napoli Team, costituita il 22 ottobre 2002 con Cesare Naldi socio al 25,5%, fu sottoscritto il 10 gennaio 2003 e aveva come oggetto "una licenza d’uso dell’immagine, del nome e del marchio per la realizzazione di una specifica iniziativa promozionale relativa alla creazione di un circuito di negozi convenzionati e di una fidelity card a punti, contro un corrispettivo ragguagliato sul 10% del fatturato generato". Peccato però che non fosse previsto un minimo garantito per il Napoli. Il contratto prevedeva una clausola molto onerosa per il club azzurro: il pagamento di una somma di 1,5 milioni di euro rivalutabile annualmente "a titolo di corrispettivo per il recesso o per la risoluzione per inadempimento della stessa Sscn".
Per Rascio i due contratti con la Napoli Service Promotion sono stipulati in tempi "assai prossimi al fallimento e con ogni probabilità in grado di svuotare la Sscn dal suo maggior valore commerciale". La scrittura stipulata nel gennaio 2004 aveva ad oggetto la concessione del marchio Sscn per la produzione e commercializzazione di determinati articoli per un corrispettivo pari al 10% del fatturato, senza però minimo garantito. L’altro contratto, firmato nel marzo 2004, attribuiva addirittura la licenza esclusiva dei marchi del Napoli sino al 30/12/2014 per un corrispettivo pari al 10% del fatturato, sempre senza minimo garantito. Il curatore raffronta l’eccessiva onerosità di questo contratto per il Napoli con le condizioni decisamente più eque di quello stipulato dalla società partenopea con Publitalia ‘80 nell’agosto 2001, a cui era stato concesso un uso limitato di sfruttamento del marchio. Per tre stagioni sportive, la società del gruppo Fininvest ha dovuto elargire al Napoli un minimo garantito compreso tra i 7,5 e i 18 miliardi di vecchie lire. Riguardo all’azionariato della Nsp (in liquidazione dal novembre 2004) c’è un mistero targato Svizzera: il 99% del suo capitale è in mano alla società di gestione patrimoni Taurus Financial Services sa di Ginevra, con succursale a Lugano. Chi sia il reale possessore o possessori del pacchetto di maggioranza non è dato saperlo. Il restante 1% è in mano a Cesare Naldi.
Il curatore ha ritenuto di segnalare che il 1° ottobre 2003, poco prima di assumere la carica di amministratore unico di Napoli Service Promotion, Cesare Naldi ha sottoscritto con il presidente della Ssc Napoli, ossia con suo padre Salvatore, un contratto di collaborazione coordinata e continuativa con un compenso di 10mila euro netti mensili per "la gestione e lo sviluppo dell’intero settore commerciale". In esecuzione del co.co.co. il 23 gennaio 2004 gli sarà corrisposta la somma di 30mila euro.
Marco Liguori
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il pallone in confusione

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