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giovedì 29 gennaio 2009

Mannini e Possanzini, Gattuso e Totti: giustizia diseguale per tutti

Avete presente gli infortuni del sabato pomeriggio, le famose contratturine, oppure quel crack sentito proprio tirando l'ultimo rigore prima della doccia? Peccato per quel forfait della vigilia, ci sarà sotto un caso? Magari una discussione con l'allenatore sulla posizione in campo...Si tratta in molti casi di doping, o più spesso di droga assunta per piacere-vizio, rilevato da un controllo medico interno e come tale da far sfuggire ai controlli. Con un tasso di disidratazione normale basta smettere di sniffare coca, per fare un esempio caro a molti calciatori (anche padri di famiglia con foto posata sul settimanale complice), al giovedì per risultare puliti la domenica. Per questo siamo restii a crocifiggere quei pochi che pagano per tutti, anche se proprio questa sarebbe la logica della crocifissione.
Premessa per dire che ci dispiace che le carriere e le vite di Daniele Mannini e Davide Possanzini vengano rovinate da questa sentenza del Tas: un anno di squalifica per essersi presentati in ritardo a un test antidoping dopo la partita del Brescia (dove all'epoca giocavano entrambi, adesso Mannini è al Napoli) con il Chievo del dicembre 2007. Possiamo dirlo? Ci sembra di notare uno strano accanimento, lo diciamo da non tifosi di Mannini, Possanzini, del Napoli o del Brescia. La Figc aveva assolto infatti i due, per un comportamento sicuramente grave (in teoria, perché in pratica i due erano nello spogliatoio con il resto della squadra) ma non diverso da quello di tanti campioni graziati in circostanze analoghe, poi il Coni a cui gli atti erano stati trasmessi aveva chiuso la vicenda con un buffetto (15 giorni di squalifica). A questo punto la Wada, cioé l'agenzia mondiale antidoping, ha fatto ricorso, chiedendo due anni di squalifica, ed adesso è arrivata la decisiona di Losanna. Comunque la si veda, l'equiparazione di un'ingenuità (magari anche dolosa, mettiamo per ipotesi che Mannini e Possanzini siano davvero 'cattivi') a quella del reato vero e proprio, cioè quello di essersi dopati.
Non vogliamo essere innocentisti a prescindere, pur vedendo il caos che regna nelle zone intorno agli spogliatoi dopo le partite, ma solo dire che il caso di Mannini e Possanzini ricorda solo vagamente quello di Rino Gattuso (rifiutò un prelievo di sangue dopo un Roma-Milan, che comunque non era obbligatorio, con spiegazioni per tifosi di bocca buona: 'Il mio doping è il peperoncino') ed invece moltissimo quello di Francesco Totti: un ritardo di circa un quarto d'ora nel presentarsi al test antidoping obbligatorio (quello sulle urine, insomma) dopo Roma-Torino del maggio 2007 giustificato in maniera risibile (''Mi faceva male la caviglia''). La cosa curiosa è che nell'occasione non è che ci fu un giudizio morbido, ma non ci fu proprio giudizio. La procura antidoping della Figc nemmeno segnalò la cosa al Coni e nell'ottobre dello stesso anno la Corte di Giustizia (sempre Figc) archiviò tutto, cioè niente. Il circuito Coni-Wada-Tas-Eccetera in quell'occasione non si attivò.
di Stefano Olivari
Tratto da Indiscreto
per gentile concessione dell'autore ed editore
stefano@indiscreto.it

venerdì 21 novembre 2008

L'attraente calcio di StageUp

Anni fa un nostro caporedattore, per motivi inconfessabili (aveva bisogno di due biglietti omaggio da parte della società ospitante, questa la conclusione della rapida indagine) ci costrinse a scrivere che l'Inter-Roma di due giorni dopo avrebbe avuto due miliardi di telespettatori, come da comunicato dell'ufficio stampa. Numeri mai raggiunti nemmeno da una finale Mondiale, una strepitosa e consapevole cazzata che però faceva contenti tutti: le squadre coinvolte, la tivù, lo spettatore medio del calcio italiano che così poteva pensare di assistere a qualcosa di importante. E pazienza per il lettore meno stupido, che si leggesse Proust o l'Economist. Lo schema non cambia davvero mai: per Inter-Juventus abbiamo letto cose che ci vergognamo anche di toccare con il copia & incolla, con la retorica dei cento paesi collegati che fa tanto Festival di Sanremo di una volta (un saluto agli amici di Malta!). Fra le cifre meno banali quelle sul numero dei tifosi delle varie squadre in Italia, spesso oggetto di dispute da bar del genere 'chi ce l'ha più lungo'. Secondo la più recente ricerca di StageUp e Ipsos la Juventus ha nel nostro paese 7,3 milioni di tifosi, mentre l'Inter 4,5. 11,8 in aggregato, secondo i rilevatori mezzo milione (non si sa con quali proporzioni) più dell'anno precedente: quindi Calciopoli avrebbe fatto aumentare la credibilità e la voglia di calcio in Italia? Dopo la Coppa del Mondo un'altra vittoria che Moggi potrebbe legittimamente attribuirsi, quindi. I soliti malpensanti avranno magari visto la solita iniezione di ottimismo per un baraccone ormai solo televisivo e pubblicitario, secondo una logica stringente: faccio rilevazioni di mercato che dimostrano che il mercato è in crescita, quindi gli investitori pubblicitari ci credono, quindi arricchiscono ulteriormente le aziende che magari commissionano alla StageUp della situazione (ce ne sono mille, di cui 999 con sede a Milano) un'altra indagine di mercato per così dire mirata. Fra i clienti di StageUp risultano esserci, non è un grande segreto (a parte che per chi riprende acriticamente ogni notizia d'agenzia), Milan, Bologna, la Figc, la Ferrari, la Lega Basket, varie altre entità e, sorpresa, Inter e Juventus. I cui tifosi nell'ultimo anno sono aumentati di mezzo milione. Saranno extracomunitari regolarizzati, che nel calcio italiano credono ancora: StageUp li ha già inseriti nel suo panel.
Stefano Olivari per Indiscreto

giovedì 17 aprile 2008

Chi vince con Berlusconi

di Stefano Olivari
da http://www.settimanasportiva.it/index/it/news.show/Chi+vince+con+Berlusconi.html?sku=1699


Che cosa cambierà nel micromondo calcistico con la vittoria elettorale di Berlusconi? Domanda non epocale, come quasi tutte le nostre, ma comunque di un certo interesse per chi come noi di calcio vive. Per Abete cambia pochissimo: uomo di centro, navigatore nella politica senza mai sembrare maneggione, con il suo non decisionismo (da Donadoni a Collina, in un anno di presidenza non ha mai fatto una scelta davvero sua) si è guadagnato l'indifferenza del futuro presidente del Consiglio, che continua non del tutto a torto a considerarlo il vice di Carraro. Un calcio veltroniano avrebbe ovviamente spostato la centralità del potere verso la federazione, ma di sicuro non si può dire che Abete abbia perso. Campane a morto invece per Antonio Matarrese, che con la storia del miliardo ha provato a svincolarsi dall'abbraccio della B facendo quello che pensa in grande dopo una vita passata a comporre contrasti fra ras di paese. Niente da fare: se la A saluterà la compagnia prima della fatidica data del 2010, quella di tutte le scadenze, commissioner della nuova lega 'leghista' sarà al 110 per 100 Adriano Galliani. Nell'arco di due anni far crescere un dirigente da Milan non dovrebbe essere difficile: il gruppo è pieno di ottimi manager per la gestione finanziaria, a cui affiancare un uomo di sport (l'amico Natali, piuttosto che Costacurta o un direttore sportivo di provincia) per il mercato. E poi di strapagare bolliti dalla Spagna con la straordinaria consulenza di Bronzetti (è l'unico ad avere il numero di Barcellona e Real Madrid?) dovrebbero essere più o meno capaci tutti. Un Berlusconi presidente del Consiglio non potrà esserlo anche del Milan, ma nella sostanza cambierà poco: carica vacante, a meno che non scocchi l'ora del non più piccolo Luigi. Vince Collina, che Berlusconi e Galliani hanno sempre rispettato tanto da non volersi esporre quando c'è stato da reclamare per qualche torto arbitrale subito dal Milan: alla classifica alla moviola ci ha pensato la Gazzetta (solo che quando la faceva Maurizio Mosca nel leggendario Appello del Martedì non veniva preso sul serio), ben prima della svolta simil free press. Perde Moratti, non solo per le simpatie politico-salottiere per la sinistra (in realtà più della moglie che sue), ma anche perché a un presidente del Consiglio pur non vincendo nel calcio rimangono tanti altri tavoli su cui giocare. I guadagni nella raffinazione del petrolio si giocano sui millesimi di euro, una tassettina in più o in meno cambia il destino di una dinastia industriale in un paese in crisi di approvigionamento energetico: diciamo che il Fraizzoli che dopo la telefonata di Andreotti straccia il contratto di Falcao è un paragone che ci può stare. Pareggia la Juventus, che ci ostiniamo per abitudine infantile a collegare al mondo Fiat: dall'abolizione del bollo a mille incentivi per l'auto, annunciati dalla benevolenza verso Silvio del gruppo mediatico Montezemolo, non sarà di sicuro obbligata a fare del pauperismo. E gli Elkann a Berlusconi non sono certo antipatici. Un pareggio con tendenza alla sconfitta, perché il reale progetto politico di Montezemolo puntava al pareggio elettorale per poi proporre uno pseudo-governo dei tecnici: probabile adesso che invecchi (del resto ha già 60 anni) fra Raikkonen e Massa, in quella barzelletta pompata artificialmente dai media che si chiama Formula Uno. Perde la Roma, con la famiglia Sensi ed il suo giocatore simbolo schierati per Veltroni-Rutelli ed ingiustamente presi di mira per questo, come se le strumentalizzazioni politiche fossero esclusiva di una parte: che il gruppo sia di fatto ostaggio di Unicredit è un elemento che gioca a favore della vendita del magnate di turno, al quale ovviamente non basteranno i soldi ma dovrà trovare anche consenso. Se è vero, come è vero, che i mezzi flop con Manchester United (in modo ostile) e Inter (in modo più discreto) non sono stati dimenticati, una squadra ed una città di notorietà mondiale non dovrebbero dispiacere a Murdoch, eterno finto nemico del Berlusca. Questa la politica, mentre per quanto riguarda i soldi già adesso si puà dire che la legge Melandri sarà spazzata via, più probabilmente per via giudiziaria che parlamentare: gli arieti Sky, De Laurentiis e Zamparini provvederanno a sfondare questo cigolante portone ed a tornare entro il solito 2010 alla soggettività dei diritti tivù. Per il resto nessuno scenario sconvolto: Sky per il satellite, Mediaset e La7 per il digitale terrestre, continueranno a dare il grosso, mentre il piccolo, cioé il chiaro, quasi certamente tornerà ad una Rai costretta a sobbarcarsi, con la scusa del servizio pubblico, anche una serie B che fra qualche anno non dovremmo vedere più (almeno nella sua forma attuale). Insomma, ha vinto Berlusconi ma in generale tutto il calcio di vertice ci guadagnerà. Dimenticavamo: il collaboratore principe del Berlusconi politico è stato e sarà Gianni Letta, questo significa la ricomparsa calcistica in terra italiana di Franco Carraro, attualmente all'esecutivo Uefa. Non riusciamo ad immaginare in quale ruolo, avendoli già ricoperti tutti e più di una volta: da una poltrona di sottogoverno in su, tutto è possibile.

L'attualità ci travolge, ma vale la pena soffermarsi sulla rivelazione di Johan Cruijff relativa al gran rifiuto di partecipare con l'Olanda al Mondiale 1978. Non per motivi calcistici, come abbiamo sempre pensato (il passaggio dal Barcellona ai Los Angeles Aztecs, avvenuto proprio in quell'anno, era un'ammissione di declino), o per motivi politici nel senso di boicottaggio di una manifestazione-vetrina per la giunta militare argentina, come lui stesso aveva spiegato in diverse interviste, o addirittura per constrasti a livello di sponsor (Cruijff era Puma, l'Olanda Adidas: famoso l'episodio delle due righe che fece inferocire Horst Dassler). Ma per un episodio, rivelato martedì scorso a Radio Catalunya, che aveva coinvolto la sua famiglia: un tentativo di rapimento avvenuto nel 1977 a Barcellona, durante il quale Cruijff e la moglie Danny (figlia del supreprocuratore Cor Coster) avrebbero avuto puntata alla testa una pistola e visto i tre figli in pericolo. Tentativo con una dinamica non chiara (anche ascoltando la versione originale, lo spagnolo di Cruijff è comprensibilissimo: http://www.catradio.cat/reproductor/audio.htm?ID=241651), soprattutto per quanto riguarda il suo fallimento, ma dal seguito spiegato meglio: mesi di vita blindata, con scorta di polizia e guardie del corpo, fino alla rinuncia al Mondiale ed alla fuga in America. Un episodio che getta una luce diversa sul fine carriera del Profeta del Gol (quasi due ore di emozionante film, con la voce di Sandro Ciotti: consigliamo a chiunque il dvd) e che spiega anche perchè, dopo avere giocato nelle qualificazioni, Cruijff abbia lasciato sul più bello. Facile l'analogia con il caso del rapimento di Quini (attaccante della nazionale spagnola e del Barcellona), tenuto in ostaggio per quasi un mese nel 1981, con la pista politica presto rivelatasi una bufala. Di sicuro aumenta il rimpianto per quello che avrebbe potuto essere e non è stato: nemmeno il suo ennesimo ritorno all'Ajax come futuro dirigente-burattinaio di un Van Basten allenatore, ritorno peraltro ancora non definito (mentre scriviamo sembra più no che sì), vale il trofeo più importante.

A volte avere tutta la squadra dalla propria parte è per un allenatore controproducente, specie nei club con un padre-padrone o nelle federazioni gestite secondo gli umori del momento. Così Uli Stielike è stato congedato dalla Costa d'Avorio alla scadenza del contratto: il presidente federale Jacques Anouma non è che abbia sottomano nomi migliori (l'unico di fama internazionale è Jean Tigana, storico avversario di Stielike in una delle partite più belle di tutti i tempi: ovviamente a Spagna 1982, quel Germania Ovest-Francia che ha folgorato una generazione) dal punto di vista tecnico, ma non gli ha perdonato di avere abbandonato la nazionale nelle mani del suo secondo Gerard Gili, che peraltro l'aveva condotta fino alla semifinale poi persa contro l'Egitto degli animali sacrificati. Di sicuro c'è bisogno del grosso nome, dopo Henry Michel, che era arrivato alla finale di Coppa d'Africa nel 2006 e alla fase finale del Mondiale, e appunto Stielike. Credibile Tigana, non inflazionato come altri bolsi giramondo ma forse poco umile per calarsi nella parte del c.t africano senza arie da colonizzatore. Se il Trap avesse aspettato qualche mese adesso avrebbe avuto in mano una squadra perfetta per il suo ultimo hurrah. Altro che l'Eire...Tornando a Stielike, l'ex libero di Gladbach, Real e Xamax (nel crepuscolo svizzero giocò anche qualche partita da rifinitore) l'ha presa malissimo. Al di là del fatto che il mese di assenza fosse dovuto al ricovero per un trapianto del figlio Michael, poi purtroppo morto, Stielike godeva del rispetto assoluto dei giocatori e con loro stava già impostando i piani per Sudafrica 2010. Peccato.
L'allenatore tedesco continua comunque a piacere, anche nei paesi che di sicuro non hanno mai potuto vedere 'L'allenatore Wulff', memorabile serie tv ambientata nella Bundesliga trasmessa dalla tivù svizzera dei tempi che furono e che faremmo di tutto per rivedere. Uno di quelli che avrà il compito più difficile sarà di sicuro Reinhold Fanz, da poco entrato in carica come c.t. di Cuba, la cui unica partecipazione ad una fase finale risale a Francia 1938: vittoria negli ottavi con la Romania, prima di essere arrotati nei quarti dalla Svezia di Wetterstroem e Keller. Il curriculum del 54enne Fanz non è oviamente scintillante: ha guidato l'Hannover in tempi per l'Hannover grigi ed in tempi più recenti il Karlsruher nella Bundesliga 2, senza lasciare grossi segni. L'obiettivo è quello di tutti: per raggiungerlo con una squadra dal valore misterioso ma capace di guizzi (eroica la sconfitta per 2 a 1 contro il Messico nella Gold Cup 2007) a giugno dovrà superare le doppie sfide con Antigua & Barbuda (è una squadra sola). Impresa possibile, per accedere ad un girone a quattro, dove bisognerà classificarsi secondi per andare nel girone per così dire finale della CONCACAF, quello a sei. Abbiamo letto un'intervista di Fanz sul sito della FIFA, in cui l'allenatore nativo di Mannheim parla di stage in Austria e cose del genere, però non bisogna dimenticare i recenti fatti di Tampa (Florida), quando sette giocatori della nazionale olimpica hanno salutato tutti. Ma niente è più come una volta, nemmeno la famiglia Castro.

L'inclusione di Alex Del Piero nell'album Panini di Euro 2008 ha acceso il dibattito sulla possibile ma non certo probabile convocazione di Donadoni, però di sicuro non è una novità che la Panini sia costretta a scommettere su certi personaggi: problemi di stampa e distribuzione, senza contare il marketing (non si può uscire troppo a ridosso della manifestazione), sia nell'era artigianale dei fratelli edicolanti modenesi sia in questa della multinazionale. Da fedelissimi delle collezioni dei grandi eventi, senza più amici con cui fare scambi (per Germania 2006 ci siamo piegati alla richiesta delle mancanti alla casa madre, cosa mai fatta nei trentadue anni precedenti) potremmo citare a memoria le scommesse perse sulla nazionale azzurra nelle grandi manifestazioni: fra le collezioni più sfortunate senz'altro quelle di Usa 1994, (figurine di Panucci, Eranio, Mancini e...Silenzi!) e Francia 1998 (cinque presenti-assenti: Peruzzi, Ferrara, Ravanelli, Casiraghi, Zola), ma ogni anno ha le sue curiosità: su tutte la coppia del gol Pruzzo-Bettega del 1982. Al di là delle scelte della Panini, se parliamo di continuità e non di colpi di classe Del Piero sta giocando come non faceva dal 1998 e Donadoni non avrebbe umanamente niente in contrario alla sua convocazione. Dipenderà fondamentalmente, come ha già scritto Paolo Ziliani, dalla volontà o meno di aggiungere un difensore (Chiellini) o un attaccante alla rosa. La sua storia, già luminosa (World Soccer, l'unica rivista a cui siamo abbonati, lo ha messo al sessantesimo posto nella classifica dei campioni del ventesimo secolo: prima di lui, fra gli italiani, solo Baggio, Baresi, Maldini, Meazza, Paolo Rossi e Zoff), non è comunque ancora finita: non occorre l'effetto Connors per rendersene conto.
stefano@indiscreto.it (appuntamento a giovedì 24 aprile 2008)

mercoledì 2 aprile 2008

La grande bugia sulla Premier League

di Stefano Olivari

02.04.2008

La vittoria del Manchester United all'Olimpico non ha fornito alcun pretesto agli ultras, più o meno organizzati, che rischiavano di togliere a Roma la finale di Champions 2009, ma scatenerà di sicuro i fanatici italiani di quello che potremmo definire 'Il Partito dei Ricavi'. Un movimento il cui unico credo è che la forza sportiva delle squadre dipenda esclusivamente dalle spese in sede di calciomercato e che quindi si debba incassare sempre di più per spendere sempre di più, innalzando a catena le pretese dei giocatori medi e le commissioni di procuratori in torta con i dirigenti delle società stesse. Mettiamoci l'elmetto per difenderci dal diluvio di editoriali e di interviste sulo strapotere della Premier League, scritti da chi anche solo un anno fa avrebbe deriso Milan e Inter se avesero acquistato Clichy o Arbeloa.

Delle tre sfide che hanno portato all'eliminazione delle italiane dalla fase decisiva della Champions a dire il vero solo l'ultima sembrerebbe portare qualche argomento a supporto della tesi tanto cara a Galliani: nell'esercizio 2006-2007, l'ultimo di cui esista un bilancio completo, il club di Old Trafford ha infatti avuto ricavi per 245 milioni di sterline, cioé circa 307 milioni di euro, mentre la Roma (fonte: Borsa Italiana) ha avuto ricavi consolidati per 162 milioni di euro. In estrema sintesi la più amata squadra inglese ricava il doppio della quinta più amata squadra italiana (dopo le solite tre ed il Napoli), ma se guardiamo agli ingaggi dei giocatori l'analisi si fa ancora più interessante: la società dei Sensi ha un costo del lavoro di circa 75 milioni mentre quella dei Glazer di 133. Insomma, al netto delle situazioni debitorie e delle spese per l'acquisto dei giocatori, per i semplici ingaggi Ferguson può manovrare un budget doppio rispetto a Rosella Sensi.

C'è però un piccolo particolare: la Roma è, come dicono le statistiche in possesso anche della Lega, la quinta squadra italiana per tifo mentre il Manchester United è nettamente la prima inglese ed oltretutto ha 139 milioni di tifosi sparsi in tutto il mondo, di cui 83 milioni in Asia (recente intervista del chief executive David Gill, con stime addirittura prudenziali rispetto a quelle di agenzie di marketing indipendenti). Paragonando più correttamente il club inglese con la prima italiana per seguito popolare, cioè la Juventus, nel suo più recente bilancio disponibile relativo ad una stagione in serie A (quindi la 2005-2006), si nota che nell'ultimo anno della Triade i bianconeri hanno fatturato 252 milioni di euro, all'epoca cifra praticamente identica al fatturato del Man U. Quindi la Roma e le italiane sarebbero penalizzate dai diritti televisivi?

Al bar della Lega, prima di imbeccare i propri uomini, potrebbero magari informarsi: le 'media revenue' del Manchester United, fra Premier League e Champions, nel 2006-2007 sono state pari a 61,5 milioni di sterline (83,4 milioni di euro), tutto compreso cifra inferiore a Juve, Inter e Milan, ed addirittura inferiore agli 88,316 euro della Roma. Non rifacciamo i soliti discorsi su marchandising e cose simili, nel paese del tarocco diffuso non attaccano, e concentriamoci sul teatro della passione dei tifosi, che in teoria sarebbe lo stadio: l'Old Trafford nel 2006-2007 ha generato 92,6 milioni di sterline, circa 116 in euro, mentre l'Olimpico 36,226 euro. Un terzo...Conclusione: dalle tivù, europee e locali, grandi club inglesi ed italiani prendono gli stessi soldi, il merchandising è direttamente proporzionale al numero dei tifosi nel mondo con potenziale di spesa per cose inutili e qui non c'è scampo (il Manchester ne ha cento volte più della Roma, che a sua volta ne ha cento volte più del Chievo), invece per quanto riguarda lo stadio dovrebbe contare solo la città: Manchester, intesa come Greater Manchester (il comune in senso stretto ne ha 440mila) ha circa 2milioni e 250 mila abitanti, mentre Roma con i suoi dintorni viaggia sui quattro milioni e mezzo, il doppio. Il doppio degli abitanti produce quindi un terzo dei ricavi locali?

Non è causata delle tivù cattive la differenza di prospettiva fra i club italiani e quelli di Premier League, ma di chi pensa in piccolo nell'illusione che qualche milione in più da Sky gli cambi la vita. Discorsi validi anche con Totti in campo e con Spalletti non surclassato da Ferguson come è stato, perché la palla è rotonda ed i bookmaker non avevano torto nel dare speranze alla Roma. Per i media è comunque sempre meglio giustificare i fallimenti del campo con la sfortuna, che ci può sempre stare, con i complotti, che almeno i tifosi ottusi ci crederanno, o al limite anche con le colpe di tecnico e giocatori, che tanto sono di passaggio, piuttosto che con l'incapacità dei dirigenti. Almeno di quelli che credono che la colpa sia sempre di Murdoch.
stefano@indiscreto.it
(in esclusiva per La Settimana Sportiva)

giovedì 13 marzo 2008

Inter poco champions

di Stefano Olivari
13.03.2008

tratto da www.settimanasportiva.it

1. Annunciando la fine della sua avventura interista in conferenza stampa, Roberto Mancini ha sorpreso i talebani del morattismo, ancora con il cervello pieno di interviste del centenario, libri di Oliviero Toscani (il cui figlio ha casualmente prodotto un film sulla storia nerazzurra), documentari di Salvatores (la cui assistente è una delle figlie di Moratti), celebrazioni di un'era poco credibile in ogni caso: lo sporco duopolio Galliani-Moggi, con intermezzo geronziano, ha reso spazzatura dodici anni di albi d'oro, ma non è detto che chi è arrivato dietro fosse più forte o più meritevole. Insomma, Moratti è rimasto Moratti. Per avere molte certezze bisogna essere molto tifosi, ed i tifosi del morattismo si erano così affezionati alle belle sconfitte, alle immagini in bianco e nero ed ai mezzi giocatori da non concepire l'arrivo sulla loro panchina di un vincente come Roberto Mancini. Vincente non nel senso becero della bacheca, secondo cui Trapattoni varrebbe cento Zeman, ma nel senso di provare a vincere. Che, come si è visto con il Liverpool ed in poche altre occasioni, non significa riuscirci: a volte c'è chi è più forte, chi nel momento giusto sa essere più forte, chi è bravo nello sfruttare le tue mancanze ed i tuoi sbagli (e Mancini sia con il Valencia che con il Liverpool ne ha fatti: peggio l'insistenza su Stankovic, con Jimenez trascurato, che la scelta di un Burdisso al quale per mancanza di fiducia i compagni non passano la palla quando si sovrappone). Ci sarà tempo e modo per tornare su quello che ha significato Mancini per l'Inter, forse anche prima dei due mesi e mezzo da lui ipotizzati e che ieri sera Moratti ha ipotizzato non essere gli ultimi della sua vita interista. E' invece evidente che si tratti solo di una tregua, per rimanere attaccati ad uno scudetto che prima di Mancini sembrava un traguardo pazzesco e che adesso sembra quasi un premio di consolazione. Solo la rimonta della Roma ha fatto cambiare idea riguardo alla malsana idea del traghettatore: l'emergente Mihajlovic, al presidente molto più caro di Mancini, l'autocandidato Zenga e via peggiorando. Di sicuro una buona parte del mondo Inter si merita allenatori che dicano che Recoba è una grande risorsa, Adriano uno attaccato alla maglia e Coco un fenomeno incompreso. Mourinho non fa parte di questa razza, il più diplomatico Benitez forse sì.

2. L'unica cosa sicura è che Moratti, ormai da mesi invidioso del carisma del suo ex idolo e che prende come pugnalate espressioni tipo 'L'Inter di Mancini', ha preso malissimo il fatto di essere stato mediticamente scavalcato anche martedì sera. Tanto che nell'incontro avvenuto alla Saras, secondo quanto fatto trapelare da alcuni cortigiani (non necessariamente la verità), il petroliere avrebbe usato nei confronti del tecnico toni durissimi, mai adoperati nemmeno nei confronti di farabutti del passato che lavoravano per altre società facendogli strapagare cariatidi e svendere giocatori validi. Mancini ovviamente non si è scusato (di cosa poi?), come invece si dedurrebbe dalle sue stesse dichiarazioni ufficiali, ma ha preso e portato a casa: meglio chiudere con uno scudetto sofferto e le dimissioni che con un esonero. Traghettatore o non traghettatore, annunciando personalmente la fine della propria era l'allenatore è riuscito nella più facile delle sue imprese interiste: mettere a nudo la pochezza di una società e di un'ambiente che si erano illusi di avere fatto un salto di qualità. Con vari effetti collaterali. Primo: ha evitato di essere messo quotidianamente sulla graticola da Moratti nella quotidiana esternazione sotto gli uffici della Saras, come capitato a tutti, ma proprio tutti i suoi predecessori, da Ottavio Bianchi a Zaccheroni. Secondo: se Moratti non lo caccerà prima, come è ancora possibile, Mancini avrà ottenuto da quella parte di squadra che rema dalla sua parte una dedizione totale, decisiva per resistere al ritorno della Roma. E pazienza per il dirigente in pectore Figo, che per amore della maglia ha rinunciato agli Emirati Arabi, per il declinante Materazzi, l'idolo della Gazzetta Toldo o il presuntuoso Vieira: sei punti, anzi sette visti gli scontri diretti, su una squadra che penserà anche alla Champions League li si potranno mantenere anche con Pelé e Balotelli. Terzo: ha permesso a giornali e tivù di rimpiere spazi con le reazioni livorose dei suoi antipatizzanti, i tromboni del 'Mancini non ha fatto la gavetta'. Mentre Ancelotti, Van Basten, Rijkaard hanno iniziato dalla squadra del condominio...Da quella brava persona di Moggi, che aveva capito tutto da tempo (è pronto per Berlusconi, basta che gli tolgano qualche anno di squalifica) a Gino e Michele (!), tutti a parlare di gesto inopportuno ed a prendere le parti di Moratti dimenticando chi metteva in campo squadre orrende pur potendo contare sul miglior Ronaldo o sul miglior Vieri. Ma fra poco partirà comunque la restaurazione: dentro tutti quelli simpatici, fuori Mancini. Che non si attaccherà al contratto con scadenza 2011, nonostante al mondo solo Juande Ramos guadagni più di lui: al di là di ipotesi e scambi di telefonate non ha niente in mano, a parte la certezza di non poter più allenare in Italia a questo livello. Il moggismo sopravvive a Moggi e si trova benissimo con Moratti ed i baciamaglie a lui devoti.

3. Ah già, c'era la Champions League. E qui l'allenatore è decisamente meno difendibile. Ancora una volta l'Inter di Mancini si è presenta agli ottavi nelle condizioni fisiche e tecniche peggiori, anche al netto delle feste per il centenario (più simili al tronfio-trash milanista che alla tranquilla sobrietà juventina, nonostante i mille strapagati consulenti di immagine) e di infortuni che hanno inciso tanto ma non tantissimo: l'assenza dell'ultimo Materazzi era stata quasi una fortuna, Rivas non ha fatto peggio di Cordoba, Stankovic è acciaccato da tempo immemorabile ma è vocalmente Mancini in campo (infatti i compagni che non hanno il coraggio di insultare l'allenatore insultano lui), in una partita da vincere Burdisso sulla sinistra poteva tranquillamente essere sostituito da Zanetti mandando in mezzo al campo Pelé. Su tutte le considerazioni epocali e su tutti gli episodi (la peggior Inter casalinga di stagione ha avuto comunque cinque palle gol, di cui quattro sullo zero a zero: triplo Cruz e Ibrahimovic) prevale il fatto che il Liverpool di Benitez nelle ultime quattro Champions League non abbia quasi mai subito il gioco degli avversari, a parte il primo tempo della finale di Istanbul. L'unica squadra capace si sorprenderlo è stato il Benfica di Ronald Koeman due anni fa (ad Anfield Road segnò anche Miccoli), per il resto solo partite dominate di fisico e di testa, con un'occupazione degli spazi dovuta alla trasformazione in gregari, tanto per rimanere al presente, di registi come Mascherano (a uomo su Stankovic fino a quando la partita è stata chiusa) o punte come Kuyt (dal suo pressing su Burdisso sono nati tanti cross che l'olandese ha sbagliato di pura insensibilità di piede). Insomma, forse non sarebbe bastata nemmeno la migliore Inter ed a volte nel calcio vince chi è più forte: di sicuro l'Inter media di condizione atletica, di fiducia e di fortuna, sarebbe uscita anche con squadre meno forti di quella di Benitez.

4. L'uso della tecnologia, o più banalmente della televisione, per rendere più credibile il calcio conquista sempre i suoi bravi titoli, ma la grande decisione presa nel fine settimana di International Board a Gleneagles non ci sembra lo stop a cellule, sensori, microchip (nonostante la sponsorizzazione Adidas) nel pallone, eccetera, nel nome di quello che Blatter ha definito 'human aspect of the game'. E nemmeno la blanda apertura verso l'introduzione di due ulteriori assistenti dell'arbitro, focalizzati sui falli in area, ci sembra poi questa grande genialata: arrivata per giunta da chi aveva bocciato più volte i cronometristi (anzi, il cronometrista), e quindi il tempo effettivo, perché non sostenibili economicamente. La notizia ci sembra una modifica alla prima regola del gioco, quella riguardante il campo: che come tutti sanno per i match internazionali definiti 'A' dalla Fifa aveva dimensioni imprecisate, con un minimo ed un massimo (da 100 a 110 metri la lunghezza, da 64 a 75 la larghezza), tanto da far correre fra un terreno e l'altro anche 100 metri quadrati di differenza, che in uno sport basato sui dettagli, in cui il singolo episodio è tutto, sono un'enormità. Quindi la modifica è la seguente: i campi che pretendono di essere usati per le partite vere, quelle fra nazionali, devono essere 105 per 68. Sembra incredibile, ma lo sport più popolare del mondo ha dovuto aspettare la 122esima riunione del suo organo giuridico per stabilire le misure del campo nelle sue manifestazioni più importanti. Appuntamento l'anno prossimo in Irlanda del Nord, ricordando che nel calcio reale le dimensioni del campo sono queste, come da 'Laws of the game': minimo 90 e massimo 120 in lunghezza, minimo 45 e massimo 90 in larghezza. Teoricamente e praticamente si giocano quindi sport diversi, basta fare due moltiplicazioni. Questo per dire che quella dello stesso sport per 6 miliardi di persone, davanti alla capanne o in Champions League, è solo una scusa per mantenere controllo, discrezionalità ed arbitrio.

5. Allo stadio vanno sempre meno persone, il fatturato da stadio è ormai il dieci per cento di quello totale, l'unica cosa a non essere diminuita sono i pistolotti su quant'era bello il calcio di una volta. Che c'erano anche ai nostri tempi di bambini, quindi negli orridi Settanta, quando si rimpiangeva l'era in cui alla partita andavano le fantomatiche 'famiglie'. Cosa mai avvenuta, in maniera percentualmente interessante, ma luogo comune che si tramanda di giornalista in giornalista (quindi spesso di padre in figlio, considerando il tasso di parentele esistente in questa professione: inferiore solo a quello di notai e medici) fino a diventare verità. Peccato che chiunque frequenti il calcio dal vivo oggi possa rendersi conto che, pur nella diminuzione in assoluto dei numeri (media paganti-abbonati della serie A che è metà di quella del campionato 1984-85), fra gli spettatori ci siano in proporzione più donne. Discorsi già fatti, come quello sugli ascolti televisivi: però ci piace ricordare che anche fuori dal circuito delle solite grandi, che ai tanti simpatizzanti assommano gli odiatori di professione, in Italia poche cose come il calcio regalino grandi numeri alle reti che investono sulle partite vere. L'assedio dell'Everton alla Fiorentina ha avuto uno share del 9,3 %: per quasi tre ore di diretta e per La 7 un risultato pazzesco (quasi dieci volte le trasmissioni di Gad Lerner, per citare una tivù che gode di buona stampa), con punte del 20% per i rigori. Non si può ridurre proprio tutto al tifo, visto che fuori dalla Toscana la Fiorentina non ispira sentimenti né di amore né di odio, questo è il calcio e basta. Che rende credibile il non detto della bella intervista fatta dal Guerin Sportivo a Matarrese: va bene lo spezzatino per Sky, dalle 12 della domenica a tutto il resto, ma l'ideona è quella della partita top della giornata in chiaro da stravendere o da usare come spauracchio per ottenere più soldi da Murdoch. Qualcuno la guarderà.
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il pallone in confusione

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