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sabato 23 febbraio 2008

il grande Mimì Rea

http://www.indiscreto.it/indiscreto.nsf/ 11 gennaio 2006

Nel paese dei vicecampioni

di Marco Liguori

Domenico Rea è conosciuto per i suoi capolavori letterari, in Italia e nelle numerose traduzioni all’estero. Per citarne solo alcuni: “Spaccanapoli”, “Gesù fate luce”, “Ninfa plebea”. In essi ha raccontato di Napoli (dov’era nato nel 1921), di Nocera Inferiore (dove aveva trascorso la sua adolescenza) e del Sud, con i loro personaggi e le vicende di vita quotidiana. La sua fervida e abile mano di scrittore ha saputo perfettamente incastonare nella quotidianità elementi di fantasia: a questi ha sempre aggiunto i tratti umani dei suoi personaggi, raccontati e descritti con grazia, passione e dovizia di particolari. Ma la sua penna immortale non è mai caduta nella trappola della retorica e dell’iconografia napoletana tradizionale: Vesuvio, pizza e mandolino. Nei suoi romanzi e nei suoi racconti sono amalgamati realtà e fantasia, dramma e allegria, luci e ombre della vita di tutti i giorni: il tutto a volte intervallato da espressioni napoletane, che rendono ancor più vivi i suoi scritti. La sua personalità si può evidenziare in questo suo pensiero, espresso in un’intervista ad un quotidiano spagnolo, mentre girava nella penisola iberica per alcune presentazioni e conferenze: “No soy socialista ni izquerdista. Tampoco de ninguna derecha. Yo soy un libre pensador”. (Non sono socialista, né un uomo di sinistra. Né tantomeno di destra: sono un libero pensatore). Un atteggiamento di agnosticismo politico, derivante in gran parte dalla sua “sconfessione” dell’ideologia comunista dopo l’invasione dell’Ungheria da parte dell’Urss nel 1956. Rea ha però sempre avuto nella sua vita una stella polare, che riluce anche nei suoi romanzi: combattere l’ingiustizia, quale essa sia. Noi di Indiscreto non abbiamo però l’intenzione di ammorbare il lettore con panegirici letteral-intellettuali. Lungi da noi un tale proposito: ce ne sarebbe sicuramente grato anche “Mimì” Rea...Invece, vogliamo parlare di un lato poco conosciuto dello scrittore napoletano: il suo rapporto con il mondo del calcio. L’occasione nasce da un volume pubblicato alla fine del 2005 dalla Mondadori, nella sua collana “Meridiani”, a circa 12 anni dalla sua scomparsa. Il titolo è “Opere”: una summa di tutti i racconti, romanzi, poesie, saggi, commedie e scritti giornalistici del grande “Mimì”. Rea è stato prestigioso collaboratore del “Guerin Sportivo” tra il 1970 e il 1971: in quegli anni il famosissimo settimanale sportivo era diretto da Gianni Brera. A ciò si aggiunge nel 1975 la breve direzione del mensile “Il Napoletano”, edito dalla Tursport, collegata alla Società sportiva calcio Napoli (fallita nel 2004), presieduta allora da Corrado Ferlaino. Soltanto i primi tre numeri portarono la firma di Rea: il ponte di comando dell’iniziativa editoriale detenuta dal club del “Ciuccio” passò dal quarto numero a Domenico Carratelli, mentre Rea ottenne una “consulenza letteraria”. “Mimì” portò al giornale una squadra di collaboratori di primissimo ordine: Gaetano Afeltra, Giovanni Arpino, Carlo Bernari, Giorgio Bocca, Roberto De Simone, Antonio Ghirelli e Mario Soldati.
Ma qual era effettivamente il rapporto del grande scrittore con il mondo, per dirla con Brera, di “Eupalla”? Sicuramente complesso e molto particolare. Si può tranquillamente affermare che “Mimì”, in omaggio alla sua idea di “libero pensatore”, non fosse un tifoso, né un devoto descrittore di tattiche e schemi. Sua figlia Lucia ricorda che “era un amante del bel gioco: se una partita in tv lo annoiava, si alzava senza perdere tempo”. Ma c’è un particolare molto importante. “Se in un incontro c’era una squadra potenzialmente più debole dell’altra – prosegue la figlia Lucia nei suoi ricordi – papà parteggiava per quest’ultima”. Anche nel calcio, quindi, Rea era dalla parte dei “diseredati”, coerente al suo ideale di combattere l’ingiustizia. Il “Rea-pensiero” sul gioco del calcio è condensato nell’articolo (pubblicato il 29 giugno 1970) intitolato “I mondiali del Messico”: il titolo originale era “I mondiali del Messico saga di faziosità”. Il testo parte da Italia-Israele, incontro finale del gruppo 2 della fase iniziale eliminatoria dei mondiali messicani: oltre agli azzurri e ai giocatori con la stella di Davide (giunti per la loro prima ed ultima volta alla fase finale della Coppa del mondo) nel girone erano inseriti anche Uruguay e Svezia. Una partita agevole, non solo per i potenziali valori calcistici, a tutto favore della nostra nazionale: l’Italia avrebbe potuto anche pareggiare per passare ai quarti di finale. Israele era tagliata fuori dalla differenza reti (-2) e avrebbe dovuto vincere con diversi gol di scarto per sperare nel pasaggio del turno. L’articolo termina con il commento sulla finale Brasile-Italia, conclusasi con la vittoria della squadra di Pelé per 4 a 1. L’incipit di Rea fa comprendere tutta la sua filosofia calcistica. “Queste battute, “shows”, note, osservazioni e opinioni sullo svolgimento della Coppa Rimet vista per televisione sono assolutamente personali e, si intende, contengono gli errori e le confusioni di un incompetente di calcio; un poco come quel giocatore israeliano di cui non ricordo il nome che ancora tre mesi or sono non aveva mai tirato un calcio alla palla e tantomeno al pallone”. Il racconto prosegue con un gustoso particolare, che rientra perfettamente nel suo tono ironico e divertito: prima della visione della partita l’autore e un suo amico avevano mangiato “un favoloso piatto di spaghetti alla Posillipo e un par di polipi veraci alla luciana…”. Anche in questo caso, Rea riecheggia particolari della sua terra: specialità gastronomiche del Golfo, portate prelibate che forse neanche il dio Nettuno avrebbe potuto assaporare sulla sua tavola imbandita. Rea si sente sicuro della forza della nostra Nazionale: “Vedrai, assisteremo a un macello” disse al suo amico. Anzi, lo scrittore aveva azzardato un pronostico: “L’Italia batterà Israele 27 a zero”. E rafforza la sua convinzione con un’iperbole spassosa: “E’ come se la nostra Nazionale si mettesse a giocare con Palumbo, Brera, Ghirelli, Nino Oppio, Bonacini, Giovanni Arpino, Ciro Buonanno, Ettore Bernabei, l’avvocato Onesti, te e me”. Insomma, una formazione di 11 dopolavoristi: di gran lusso, ma pur sempre dopolavoristi. A parte la loro età, Rea aggiunge che questi illustri signori “anche a vent’anni erano come oggi, gente pensosa d’altro…”.
L’incontro ha inizio. Dopo alcuni minuti, comincia ad aleggiare un senso di delusione poiché l’Italia non riesce a segnare contro il modesto Israele. Rea sottolinea che c’era un clima di “mosceria generale”. Il grande attaccante azzurro Gigi Riva, tanto atteso dai tifosi, non riusciva a segnare “perché quei birbanti dei suoi amici gli lanciano contro il pallone, cattivi!, sulla destra. Ma se è un mancino, perché gli fanno questi scherzi?”. La nostra nazionale non riusciva a risolvere il rebus Israele: avrebbe dovuto farne un solo boccone e invece era inchiodata sullo zero a zero. Nel torpore generale, lo scrittore napoletano annota che “i dieci camerieri di Riva si ammutinano, o meglio, una volta sola, tanto per far veder, consegnano a Riva una palla-regalo e Riva tira e Carosio dà il gol per fatto”. Ma la palla termina addosso a un ragazzetto delle tribune. Rea ironizza sulla telecronaca di Nicolò Carosio: “Il commentatore aggiunge che gl’israeliani sono dei poco di buono perché non lasciano a Riva lo spazio di giocare. Lo marcano (si dice così?) lo perseguitano, gli tolgono la palla dal sinistro, insomma abusano. Vigliacchi! Vigliacconi! Non hanno il coraggio di lasciargli l’area di rigore libera in modo che il cagliaritano se ne vada liscio in porta a celebrare lo show che faceva ai bei tempi quando segnava in provincia”. Alla fine, l’incontro terminò in parità. Ma qui appare il genio creativo di Rea, con una frase che suona come un sonoro, beffardo e canzonatorio “pernacchio” (per dirla con Eduardo De Filippo): “L’Italia aveva superato la tremenda, terribile, invincibile squadra israeliana per 0 a 0”. Lo scrittore fustiga con la sua ironia coloro che avevano sostenuto le difficoltà incontrate dai calciatori italiani nel giocare in altura: una scusa assolutamente puerile. “Gli israeliani hanno avuto un gioco facile, abbondanza di respiro, polmoni grossi come mantici di organi a stanga. Mica vivono nel Mediterraneo, gl’israeliani! Ma sulle montagne. Sono gente di altura”. Ma lo sfottò letterario di Rea verso l’evento Mundial non termina qui. Nel suo mirino finiscono le polemiche seguenti al 4 a 1 subito in finale dall’Italia da parte del Brasile: vittoria che aveva assicurato definitivamente ai calciatori carioca la Coppa Jules Rimet. “Se Rivera, dissero al “cafè”, fosse entrato nel secondo tempo, povero Brasile. Altri invece sostengono che se Rivera fosse entrato anche duecentocinquanta anni or sono, l’Italia invece di quattro goals ne avrebbe presi cinque, ma in compenso ne avrebbe fatti invece due”. E subito dopo, si abbandona a un appello che sembra più che mai attuale. “Signori miei, fedeli lettori, illustri critici, appassionati commentatori televisivi: noi non ne capiamo una “h” di calcio, lo confessiamo senza troppa vergogna; ma abbiamo occhi per vedere ed è finito il tempo in cui pendevamo dalla bocca del commentatore radiofonico”. “Mimì” spiega a modo suo la forza e la superiorità dimostrata dai brasiliani nei confronti dei nostri giocatori. “Non erano giocatori di calcio, ma atleti olimpionici, come dovevano essere. Nello spirito avevano la fiaccola. Forse non sapevano neanche di stare giocando con una squadra chiamata Italia e la posta non era la coppa o la vittoria. Giocavano per il gioco in sé, per raptus, per la eterna gloria dello sport”. Rea stigmatizza l’espressione vice-campioni del mondo, coniato dalla stampa italiana all’indomani della sconfitta in finale con un altro sberleffo, lanciato attraverso un’altra iperbole: “Oh ridicolo termine. Lo saremo pure, e non v’ha un dubbio; ma allo stesso modo in cui tutti scrivono. Anche io scrivo e anche Tolstoj scriveva. Ma, buon Dio, ce ne corre di pane”. Nonostante tutto, la Coppa Rimet aveva “divertito un mondo” il sincero “Mimì”. Il quale, non risparmia un ultimo “pernacchio” all’indirizzo dei suoi amici del “cafè”: “Don Salvatore, mi sapete dire ieri sera che cosa hanno fatto Italia-Brasile?”. La risposta tutta napoletana del suo amico non si fa attendere: “Dottò, ma chi volete sfottere?”

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