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sabato 23 febbraio 2008

uno stadio commerciale

il manifesto 22/05/2003

La nuova frontiera immobiliare della Juventus

Lo stadio Delle Alpi di Torino diventerà presto un centro commerciale. Ecco come e perché


MARCO LIGUORI 
SALVATORE NAPOLITANO

Cose strane accadono all'ombra della Mole Antonelliana. Sono cose che riguardano l'uso dello spazio pubblico concesso dal Comune. Hai un bar o un ristorante e vuoi espanderti mettendo dei tavolini sul marciapiede, vuoi installare un banco per il commercio di libri usati oppure di fiori? Il costo annuo al metro quadro sarà mediamente di 76,65 euro: un po' di più in centro, un po' meno in periferia. Se il ristorante volesse aggiungere una veranda, il costo medio salirebbe a 115,28 euro. Sei un'azienda che voglia occupare il suolo pubblico per attività economiche o promozionali? La tariffa sarà ben più elevata e si attesterà mediamente a 613,2 euro. Ma se sei una società di calcio e ti chiami Juventus il trattamento a te riservato sarà del tutto diverso. Ti potrà essere dato il diritto di edificare sul suolo comunale e di divenire proprietario della costruzione per 99 anni: tale diritto è detto «di superficie» dal Codice Civile. In più, ti è riservata la possibilità di acquisire anche la proprietà del suolo, qualora il Comune decidesse di venderlo. Tutto questo per la modica cifra annua di 4,68 euro al metro quadro: in altre parole, 9.050 delle vecchie lire. E' il senso della Convenzione, relativa allo Stadio Delle Alpi ed alle zone ad esso adiacenti, che il Comune di Torino sta per firmare con la Juventus e che è sorta dopo la modifica al Piano regolatore. Non occorrono sofisticati calcoli per capire il senso di una delibera che assomiglia tanto ad un grazioso regalo: per la costituzione del diritto di superficie la Juventus pagherà in totale 25 milioni, ossia 252.525 euro all'anno. L'area interessata è di 54mila metri quadrati, parte all'interno del Delle Alpi, parte all'esterno. In cambio, la società bianconera potrà costruirvi un centro commerciale, una multisala cinematografica, la nuova sede e dei parcheggi. Deciso il regalo, il Comune avrebbe potuto almeno farsi pagare subito: neanche per sogno. Si accontenterà di ricevere 18 dei 25 milioni complessivi in 9 rate annuali. Tutto ciò è accaduto con l'accordo sostanziale delle forze politiche di maggioranza e di opposizione, ad eccezione di Rifondazione comunista che ha votato contro. Mentre potrebbe essere al tramonto l'epoca delle plusvalenze incrociate è forse questa la nuova frontiera «immobiliare» di cui parla l'amministratore delegato della Juventus, Antonio Giraudo, ipotizzando un roseo futuro: che si appresti a farsi concedere altri diritti di superficie alle medesime condizioni per costruirvi qualunque tipo di edificio e poi rivenderlo a prezzi più alti? Da sempre il bilancio dei bianconeri risponde alla filosofia del «beati monoculi in terra caecorum», nel senso che è soltanto meno peggiore dei conti dissestati di tante squadre di calcio. Dunque, anch'esso avrebbe urgente bisogno di qualche idea geniale: nonostante sia possibile raggiungere al 30 giugno, giorno di chiusura dell'esercizio, il record assoluto di fatturato per le società calcistiche italiane con 200 milioni, i conti 2002-2003 sono destinati a chiudere in rosso. Al 31 marzo, le perdite complessive dei primi nove mesi erano pari a 11,37 milioni, nonostante plusvalenze già incamerate per 13,48 milioni. La Juventus è infatti solita imputare all'esercizio successivo (in questo caso al 2002-2003) i movimenti della campagna trasferimenti, cioè quelli dell'estate 2002. Così l'imminente calciomercato produrrà effetti solo sul bilancio dell'esercizio 2003-2004. E non sarebbe sufficiente a invertire il segno del conto economico annuale nemmeno l'eventuale adesione al decreto cosiddetto «salvacalcio», che, in base ad un gioco di prestigio ideato dalla maggioranza parlamentare, consente di suddividere nell'arco di dieci anni le perdite derivanti dalla diminuzione del valore di mercato dei calciatori. Nella sede di Corso Galileo Ferraris questi numeri sono perfettamente conosciuti: tanto che appare subdolo il consiglio, dato ieri dalla Gazzetta dello Sport al direttore generale Luciano Moggi, di fare un tuffo nella piscina piena di euro di cui la Juventus disporrebbe. Se Moggi si tuffasse davvero in quella piscina, ne uscirebbe con un vistoso bernoccolo. Più saggiamente, il direttore generale avrà preferito esercitare, e con lui anche il vice presidente Roberto Bettega, il diritto di acquistare 347.525 azioni della società bianconera al prezzo di 21 centesimi. Con il titolo che viaggia in Borsa intorno ai 2,35 euro al momento fa una plusvalenza, vera per entrambi, di circa 750.000 euro.

astuzie rossonere

il manifesto 5-12-2003

Diavolo, un ricettario di furbizie

Il patrimonio calciatori svalutato col decreto «spalma perdite», le plusvalenze fittizie con l'Inter, il ricorso ai condoni fiscali, l'appoggio imprescindibile della Fininvest: sono gli artifici contabili usati dal Milan per il bilancio della stagione 2002/03. Chiuso, nonostante tutto, con un passivo di 29,5 milioni di euro.

MARCO LIGUORI
SALVATORE NAPOLITANO

La ricetta è ampiamente sperimentata e gli ingredienti ormai noti. Si prende una dose massiccia di svalutazione dei diritti pluriennali alle prestazioni dei calciatori, usufruendo della famigerata legge definita «spalma perdite», facciamo 242,005 milioni di euro. Vi si aggiunge un sostanzioso strato di plusvalenze incrociate fittizie, facciamo 27,95 milioni. Si mischia l'impasto ottenuto con un paio di condoni: il primo per chiudere le liti fiscali pendenti dinanzi alla Commissione tributaria o al giudice ordinario, facciamo 2,389 milioni; l'altro, chiamato «tombale», atto a definire tutte le posizioni relative a Irpef, Irap e Iva fino al 30 giugno 2001, facciamo 1,813 milioni. Infine, si condisce il tutto con un assegnino staccato dall'azionista di maggioranza per ripianare le perdite nel bel mezzo della stagione: una spruzzatina di 60,579 milioni. Si ottiene un piatto di gran moda, ma totalmente indigesto a chi crede che le regole contino ancora qualcosa. Grosso modo è questo il bilancio del Milan, chiuso al 30 giugno 2003: un ricettario della furbizia. Ma tutto ciò non è bastato per finire in utile. Infatti, in via Turati è rosso continuo: 29,5 milioni di perdite, in linea con i 33,22 dell'anno precedente. E non è stato sufficiente nemmeno il record del fatturato, aumentato al massimo storico, per la prima volta oltre i 200 milioni: esattamente a 203,852 milioni, il 28,33% in più dei 158,854 dell'esercizio precedente. Con i suoi 218,3 milioni incassati, solo la Juventus è riuscita a far meglio: rossoneri e bianconeri sono stati beneficiati dall'aver raggiunto la finale di Champions League nella scorsa stagione. I conti del Milan riflettono la gioiosa abbondanza derivante dal fatto che la squadra è il biglietto da visita del Cavaliere. In tempi di generale carestia, la società rossonera ha potuto tranquillamente permettersi un sostanzioso incremento degli stipendi elargiti: dai 121,588 milioni della stagione 2001-2002 ai 152,568 di quella
2002-2003. E' la conseguenza di una campagna acquisti incentrata sugli arrivi di Alessandro Nesta, Rivaldo, Clarence Seedorf e Jon Dahl Tomasson. E le solenni promesse di risanamento, che sono state necessarie per ottenere la legge 27 del 21 febbraio 2003, la cosiddetta «spalma perdite»? Quelle le ha fatte il presidente della Lega calcio Adriano Galliani, mica l'amministratore delegato rossonero Adriano Galliani. Il rosso di bilancio è stato attutito drasticamente dalla legge 27 e dalle plusvalenze fittizie: sarebbe stato infatti di 112,71 milioni senza il ricorso ad esse. Non avrebbe creato però soverchi problemi ai conti rossoneri: l'azionista di maggioranza Fininvest, leggasi Silvio Berlusconi, che controlla la quasi totalità delle azioni, avrebbe semplicemente dovuto sborsare l'eccedenza di perdite, rispetto a quelle iscritte a bilancio, di 83,21 milioni. Una bazzecola per le tasche capienti del presidente del Consiglio, ma pur sempre un piccolo fastidio da 160 miliardi e spiccioli di vecchie lire.

Il Milan ha infatti sfruttato in misura rilevante i benefici dell'ineffabile «spalma perdite», svalutando il patrimonio calciatori nella misura di 242,005 milioni. Tra le grandi che vi sono ricorse, solo l'Inter ha operato un taglio più drastico. Come spiegato a pagina 37 del bilancio rossonero, l'adozione della norma ha generato minori ammortamenti complessivi pari a 54,305 milioni. E gli ammortamenti, come chiunque sa, sono un costo. Ma non è tutto: la Deloitte & Touche, società chiamata alla revisione del bilancio, ha dovuto sottolineare che, se tale svalutazione fosse stata imputata interamente al conto economico, «come previsto dalle norme sul bilancio di esercizio contenute nel Codice Civile e dai principi contabili di riferimento» l'aumento della perdita, e la contestuale riduzione del patrimonio netto sarebbe stata pari a «217,805 milioni, ovvero l'ammontare delle svalutazioni pari a 242,005 milioni meno la quota di ammortamento dell'esercizio pari a 24,2 milioni». E qui il fastidio per la Fininvest sarebbe stato un po' maggiore:
un assegno da circa 422 miliardi di vecchie lire. Quanto alle plusvalenze, il Milan non ha affatto perso il vizio degli anni passati, iscrivendo a bilancio un totale di 28,908 milioni. Gli scambi con l'Inter sono ormai assurti al rango di consuetudine, ma lo scorso giugno è stato infranto il record: quattro carneadi hanno fatto il viaggio da Milanello ad Appiano Gentile e viceversa. Quello di Simone Brunelli, Matteo Deinite, Matteo Giordano e Ronny Toma verso l'Inter ha generato una plusvalenza fittizia totale di 11,961 milioni. In cambio, sono però arrivati a prezzi folli, in tutto 13,95 milioni, Salvatore Ferraro, Alessandro Livi, Giuseppe Ticli e Marco Varaldi.

Nelle sue usuali operazioni, il Milan non si è accordato con la sola Inter, ma anche con il Parma. Le cessioni di Marco Donadel, Davide Favaro e Mirco Stefani, scambiati con Luca Ferretti, Roberto Massaro e Filippo Porcari, hanno garantito 7,892 milioni di plusvalenza. Quanto ai rapporti con il Fisco, è rilevante l'ammontare pagato dai rossoneri per aderire ai vari condoni previsti dalla legge finanziaria 2003: 4,202 milioni complessivi, ossia 8 miliardi e 136 milioni di vecchie lire, sono la prova che la società milanista non può godere dell'etichetta di contribuente modello. Solo per fare due paragoni, la Juventus ha dovuto sborsare 755mila euro e l'Inter una vera inezia: 68.698 euro. Infine, il Milan continua a beneficiare dei privilegi dell'appartenere al gruppo Fininvest. Lo ha segnalato, come accade ogni anno all'atto della certificazione del bilancio rossonero, anche la Deloitte & Touche e se ne comprende bene il perché: oltre ai 60,579 milioni di perdite ripianate dalla Fininvest con decisione presa dall'assemblea straordinaria del 20 dicembre 2002, si segnalano 11,333 milioni di ricavi ottenuti dal Milan per un accordo con Publitalia `80, concessionaria di pubblicità del gruppo, un debito di 15,844 milioni di natura finanziaria con la Fininvest, e qualche spicciolo per la cessione dei diritti televisivi a R.T.I. delle insulse amichevoli estive.

Non solo la situazione economica è precaria, ma anche quella finanziaria non è affatto brillante. Se la società supera indenne le tempeste è solo perché ha le spalle coperte dalla Fininvest: e può contare su aiuti importanti proprio per la sua appartenenza. Al 30 giugno 2003 la differenza tra debiti da un lato, e crediti e liquidità dall'altro, era pari a 92,358 milioni. Uno squilibrio certamente rilevante che però è di molto inferiore a ciò che sarebbe potuto essere. Infatti, a quella data, il Milan aveva già incassato i proventi relativi alla cessione dei diritti televisivi criptati sia per il campionato 2003-2004 che per quello successivo: e si parla di circa 150 milioni, equivalenti a poco più di 290 miliardi di vecchie lire. E' come se una famiglia avesse incassato in anticipo due anni di stipendio: ma se un giorno il datore di lavoro dovesse decidere di interrompere questa piacevole usanza, pagando alle scadenze regolari di fine mese, per due anni la famiglia in questione non incasserebbe più un centesimo: sarebbe perciò costretta a indebitarsi con le banche o con i fornitori per far fronte alle spese. E naturalmente subirebbe dei salatissimi interessi passivi, innescando un circolo vizioso: nel caso del Milan, 150 milioni di prestito al tasso del 7,125%, riservato alla clientela di primissimo ordine, produrrebbero un onere annuo di 10,69 milioni: un costo superiore a quello del promettente brasiliano Kakà.

il grande Mimì Rea

http://www.indiscreto.it/indiscreto.nsf/ 11 gennaio 2006

Nel paese dei vicecampioni

di Marco Liguori

Domenico Rea è conosciuto per i suoi capolavori letterari, in Italia e nelle numerose traduzioni all’estero. Per citarne solo alcuni: “Spaccanapoli”, “Gesù fate luce”, “Ninfa plebea”. In essi ha raccontato di Napoli (dov’era nato nel 1921), di Nocera Inferiore (dove aveva trascorso la sua adolescenza) e del Sud, con i loro personaggi e le vicende di vita quotidiana. La sua fervida e abile mano di scrittore ha saputo perfettamente incastonare nella quotidianità elementi di fantasia: a questi ha sempre aggiunto i tratti umani dei suoi personaggi, raccontati e descritti con grazia, passione e dovizia di particolari. Ma la sua penna immortale non è mai caduta nella trappola della retorica e dell’iconografia napoletana tradizionale: Vesuvio, pizza e mandolino. Nei suoi romanzi e nei suoi racconti sono amalgamati realtà e fantasia, dramma e allegria, luci e ombre della vita di tutti i giorni: il tutto a volte intervallato da espressioni napoletane, che rendono ancor più vivi i suoi scritti. La sua personalità si può evidenziare in questo suo pensiero, espresso in un’intervista ad un quotidiano spagnolo, mentre girava nella penisola iberica per alcune presentazioni e conferenze: “No soy socialista ni izquerdista. Tampoco de ninguna derecha. Yo soy un libre pensador”. (Non sono socialista, né un uomo di sinistra. Né tantomeno di destra: sono un libero pensatore). Un atteggiamento di agnosticismo politico, derivante in gran parte dalla sua “sconfessione” dell’ideologia comunista dopo l’invasione dell’Ungheria da parte dell’Urss nel 1956. Rea ha però sempre avuto nella sua vita una stella polare, che riluce anche nei suoi romanzi: combattere l’ingiustizia, quale essa sia. Noi di Indiscreto non abbiamo però l’intenzione di ammorbare il lettore con panegirici letteral-intellettuali. Lungi da noi un tale proposito: ce ne sarebbe sicuramente grato anche “Mimì” Rea...Invece, vogliamo parlare di un lato poco conosciuto dello scrittore napoletano: il suo rapporto con il mondo del calcio. L’occasione nasce da un volume pubblicato alla fine del 2005 dalla Mondadori, nella sua collana “Meridiani”, a circa 12 anni dalla sua scomparsa. Il titolo è “Opere”: una summa di tutti i racconti, romanzi, poesie, saggi, commedie e scritti giornalistici del grande “Mimì”. Rea è stato prestigioso collaboratore del “Guerin Sportivo” tra il 1970 e il 1971: in quegli anni il famosissimo settimanale sportivo era diretto da Gianni Brera. A ciò si aggiunge nel 1975 la breve direzione del mensile “Il Napoletano”, edito dalla Tursport, collegata alla Società sportiva calcio Napoli (fallita nel 2004), presieduta allora da Corrado Ferlaino. Soltanto i primi tre numeri portarono la firma di Rea: il ponte di comando dell’iniziativa editoriale detenuta dal club del “Ciuccio” passò dal quarto numero a Domenico Carratelli, mentre Rea ottenne una “consulenza letteraria”. “Mimì” portò al giornale una squadra di collaboratori di primissimo ordine: Gaetano Afeltra, Giovanni Arpino, Carlo Bernari, Giorgio Bocca, Roberto De Simone, Antonio Ghirelli e Mario Soldati.
Ma qual era effettivamente il rapporto del grande scrittore con il mondo, per dirla con Brera, di “Eupalla”? Sicuramente complesso e molto particolare. Si può tranquillamente affermare che “Mimì”, in omaggio alla sua idea di “libero pensatore”, non fosse un tifoso, né un devoto descrittore di tattiche e schemi. Sua figlia Lucia ricorda che “era un amante del bel gioco: se una partita in tv lo annoiava, si alzava senza perdere tempo”. Ma c’è un particolare molto importante. “Se in un incontro c’era una squadra potenzialmente più debole dell’altra – prosegue la figlia Lucia nei suoi ricordi – papà parteggiava per quest’ultima”. Anche nel calcio, quindi, Rea era dalla parte dei “diseredati”, coerente al suo ideale di combattere l’ingiustizia. Il “Rea-pensiero” sul gioco del calcio è condensato nell’articolo (pubblicato il 29 giugno 1970) intitolato “I mondiali del Messico”: il titolo originale era “I mondiali del Messico saga di faziosità”. Il testo parte da Italia-Israele, incontro finale del gruppo 2 della fase iniziale eliminatoria dei mondiali messicani: oltre agli azzurri e ai giocatori con la stella di Davide (giunti per la loro prima ed ultima volta alla fase finale della Coppa del mondo) nel girone erano inseriti anche Uruguay e Svezia. Una partita agevole, non solo per i potenziali valori calcistici, a tutto favore della nostra nazionale: l’Italia avrebbe potuto anche pareggiare per passare ai quarti di finale. Israele era tagliata fuori dalla differenza reti (-2) e avrebbe dovuto vincere con diversi gol di scarto per sperare nel pasaggio del turno. L’articolo termina con il commento sulla finale Brasile-Italia, conclusasi con la vittoria della squadra di Pelé per 4 a 1. L’incipit di Rea fa comprendere tutta la sua filosofia calcistica. “Queste battute, “shows”, note, osservazioni e opinioni sullo svolgimento della Coppa Rimet vista per televisione sono assolutamente personali e, si intende, contengono gli errori e le confusioni di un incompetente di calcio; un poco come quel giocatore israeliano di cui non ricordo il nome che ancora tre mesi or sono non aveva mai tirato un calcio alla palla e tantomeno al pallone”. Il racconto prosegue con un gustoso particolare, che rientra perfettamente nel suo tono ironico e divertito: prima della visione della partita l’autore e un suo amico avevano mangiato “un favoloso piatto di spaghetti alla Posillipo e un par di polipi veraci alla luciana…”. Anche in questo caso, Rea riecheggia particolari della sua terra: specialità gastronomiche del Golfo, portate prelibate che forse neanche il dio Nettuno avrebbe potuto assaporare sulla sua tavola imbandita. Rea si sente sicuro della forza della nostra Nazionale: “Vedrai, assisteremo a un macello” disse al suo amico. Anzi, lo scrittore aveva azzardato un pronostico: “L’Italia batterà Israele 27 a zero”. E rafforza la sua convinzione con un’iperbole spassosa: “E’ come se la nostra Nazionale si mettesse a giocare con Palumbo, Brera, Ghirelli, Nino Oppio, Bonacini, Giovanni Arpino, Ciro Buonanno, Ettore Bernabei, l’avvocato Onesti, te e me”. Insomma, una formazione di 11 dopolavoristi: di gran lusso, ma pur sempre dopolavoristi. A parte la loro età, Rea aggiunge che questi illustri signori “anche a vent’anni erano come oggi, gente pensosa d’altro…”.
L’incontro ha inizio. Dopo alcuni minuti, comincia ad aleggiare un senso di delusione poiché l’Italia non riesce a segnare contro il modesto Israele. Rea sottolinea che c’era un clima di “mosceria generale”. Il grande attaccante azzurro Gigi Riva, tanto atteso dai tifosi, non riusciva a segnare “perché quei birbanti dei suoi amici gli lanciano contro il pallone, cattivi!, sulla destra. Ma se è un mancino, perché gli fanno questi scherzi?”. La nostra nazionale non riusciva a risolvere il rebus Israele: avrebbe dovuto farne un solo boccone e invece era inchiodata sullo zero a zero. Nel torpore generale, lo scrittore napoletano annota che “i dieci camerieri di Riva si ammutinano, o meglio, una volta sola, tanto per far veder, consegnano a Riva una palla-regalo e Riva tira e Carosio dà il gol per fatto”. Ma la palla termina addosso a un ragazzetto delle tribune. Rea ironizza sulla telecronaca di Nicolò Carosio: “Il commentatore aggiunge che gl’israeliani sono dei poco di buono perché non lasciano a Riva lo spazio di giocare. Lo marcano (si dice così?) lo perseguitano, gli tolgono la palla dal sinistro, insomma abusano. Vigliacchi! Vigliacconi! Non hanno il coraggio di lasciargli l’area di rigore libera in modo che il cagliaritano se ne vada liscio in porta a celebrare lo show che faceva ai bei tempi quando segnava in provincia”. Alla fine, l’incontro terminò in parità. Ma qui appare il genio creativo di Rea, con una frase che suona come un sonoro, beffardo e canzonatorio “pernacchio” (per dirla con Eduardo De Filippo): “L’Italia aveva superato la tremenda, terribile, invincibile squadra israeliana per 0 a 0”. Lo scrittore fustiga con la sua ironia coloro che avevano sostenuto le difficoltà incontrate dai calciatori italiani nel giocare in altura: una scusa assolutamente puerile. “Gli israeliani hanno avuto un gioco facile, abbondanza di respiro, polmoni grossi come mantici di organi a stanga. Mica vivono nel Mediterraneo, gl’israeliani! Ma sulle montagne. Sono gente di altura”. Ma lo sfottò letterario di Rea verso l’evento Mundial non termina qui. Nel suo mirino finiscono le polemiche seguenti al 4 a 1 subito in finale dall’Italia da parte del Brasile: vittoria che aveva assicurato definitivamente ai calciatori carioca la Coppa Jules Rimet. “Se Rivera, dissero al “cafè”, fosse entrato nel secondo tempo, povero Brasile. Altri invece sostengono che se Rivera fosse entrato anche duecentocinquanta anni or sono, l’Italia invece di quattro goals ne avrebbe presi cinque, ma in compenso ne avrebbe fatti invece due”. E subito dopo, si abbandona a un appello che sembra più che mai attuale. “Signori miei, fedeli lettori, illustri critici, appassionati commentatori televisivi: noi non ne capiamo una “h” di calcio, lo confessiamo senza troppa vergogna; ma abbiamo occhi per vedere ed è finito il tempo in cui pendevamo dalla bocca del commentatore radiofonico”. “Mimì” spiega a modo suo la forza e la superiorità dimostrata dai brasiliani nei confronti dei nostri giocatori. “Non erano giocatori di calcio, ma atleti olimpionici, come dovevano essere. Nello spirito avevano la fiaccola. Forse non sapevano neanche di stare giocando con una squadra chiamata Italia e la posta non era la coppa o la vittoria. Giocavano per il gioco in sé, per raptus, per la eterna gloria dello sport”. Rea stigmatizza l’espressione vice-campioni del mondo, coniato dalla stampa italiana all’indomani della sconfitta in finale con un altro sberleffo, lanciato attraverso un’altra iperbole: “Oh ridicolo termine. Lo saremo pure, e non v’ha un dubbio; ma allo stesso modo in cui tutti scrivono. Anche io scrivo e anche Tolstoj scriveva. Ma, buon Dio, ce ne corre di pane”. Nonostante tutto, la Coppa Rimet aveva “divertito un mondo” il sincero “Mimì”. Il quale, non risparmia un ultimo “pernacchio” all’indirizzo dei suoi amici del “cafè”: “Don Salvatore, mi sapete dire ieri sera che cosa hanno fatto Italia-Brasile?”. La risposta tutta napoletana del suo amico non si fa attendere: “Dottò, ma chi volete sfottere?”

la fine del ciuccio

Il manifesto 30-1-2004

Il buco all'ombra del Vesuvio

MARCO LIGUORI
SALVATORE NAPOLITANO

San Gennaro ha probabilmente esaurito i suoi miracoli per il Napoli. Nel passato lo ha salvato più volte, sia agli inizi degli anni Novanta, quando erano emerse le prime serie difficoltà finanziarie, che nelle ultime due estati, durante le quali la società partenopea è stata iscritta in extremis al campionato. Ma le cifre di bilancio sono chiarissime: il patrimonio netto (ossia i mezzi propri) è sempre vicino a essere addirittura negativo, dunque sulla soglia dell'obbligo di portare i libri contabili in tribunale. Questo accade perché la dirigenza azzurra non sembra più in grado di far fronte nemmeno all'emergenza, preferendo al contrario impartire disposizioni un po' squinternate come quella di non far consegnare i bilanci ai giornalisti: forse ignora che essi sono pubblici e che, quindi, basta recarsi alla Camera di Commercio per averli comunque. Al 30 giugno 2003 la situazione del Napoli era impietosa: le perdite dell'esercizio, pari a 13 milioni e 750mila euro, avevano eroso tutto il patrimonio netto, portandolo a un valore negativo di circa 967mila euro. Occorreva un'immediata ricapitalizzazione ai sensi del codice civile. L'assemblea straordinaria del 14 luglio ha deliberato l'aumento di capitale a 15 milioni: 4 milioni e mezzo sono stati sottoscritti subito, gli altri dovevano esserlo entro il 31 dicembre. Non è stato fatto: parte della quota residua, cioè 7 milioni e 138mila euro, è stata garantita da una fidejussione della Banca Popolare di Ancona. Per racimolare qualche spicciolo, il Napoli è dovuto arrivare sin nelle Marche. L'istituto non ha voluto rivelare né se abbia versato l'importo, né cosa abbia preteso in cambio del rilascio della fidejussione, limitandosi a far sapere che le garanzie ricevute sono "ottime". E allora non deve trattarsi di beni appartenenti al Napoli, perché ormai ne restano ben pochi. Leggiamo sempre, a tal proposito, il bilancio al 30 giugno 2003: il Centro sportivo di Marianella è quello di maggior valore, registrato per 8 milioni e 560mila euro. Peccato che su di esso gravino due ipoteche di primo grado per 5 milioni e 800mila euro complessivi, iscritte a favore dell'Istituto per il Credito Sportivo. I restanti impianti, macchinari e attrezzature hanno un valore totale di 203mila euro. C'è anche qualche immobilizzazione finanziaria: sono spiccioli che non raggiungono i 500mila euro, tra i quali spicca la partecipazione nel San Marino Calcio (183.030 euro), che disputa il girone B della serie C2: proviene dalla gestione Corbelli, ma l'attuale presidente Naldi se ne vuole disfare. Così, nella scorsa stagione, la quota è scesa dal 33,33% al 4,72% per la mancata sottoscrizione dell'aumento di capitale della squadra della Repubblica del Titano. E il patrimonio calciatori? Depauperato del 94,74% in seguito alla perizia giurata con la quale la società ha aderito all'ineffabile legge 27 del 21 febbraio 2003, più comunemente nota come "spalma perdite": in soldoni, si tratta di un crollo verticale da 49 milioni e 189mila ad appena 2 milioni e 588mila euro. E' un record assoluto: nessuna delle società che ha applicato la legge era giunta a una svalutazione percentualmente tanto cospicua. Particolare curioso: nonostante nel bilancio il Napoli abbia omesso di citarlo, a effettuare la perizia è stato il professor Paolo Stampacchia, che, pochi mesi dopo, è diventato presidente del Collegio Sindacale della società azzurra, l'organo deputato al controllo dell'amministrazione.E le disponibilità bancarie? Eravamo all'indigenza: 3.007 euro liquidi e un assegno di 8.040 euro. Di soldi in cassa, neanche a parlarne: la miseria di 918 euro. Solo i crediti raggiungevano un ammontare accettabile: 12 milioni e 390mila euro. Tuttavia, essendo più che controbilanciati da debiti per 64 milioni e 10mila euro, ciò significava uno squilibrio finanziario di 51 milioni e 600mila euro. E' utile un paragone con la vicenda Parmalat: nel rifare i conti, a Collecchio sta emergendo uno squilibrio finanziario quasi triplo rispetto al fatturato. Al Napoli, considerato che gli incassi complessivi sono ammontati a 20 milioni e 430mila euro, il rapporto è molto simile: 2,53 volte. In altre parole, la società partenopea dovrebbe incassare soldi per due anni e mezzo senza spendere un solo centesimo al fine di riequilibrare la situazione tra debiti e crediti. Oppure salire in serie A per assicurarsi un incremento del fatturato. In entrambi i casi, siamo nel mondo dei sogni irrealizzabili: la promozione è sfumata anche quest'anno e le difficoltà economiche e finanziarie impediscono di allestire una rosa all'altezza delle ambizioni di una tra le maggiori tifoserie italiane. La situazione è peraltro destinata a peggiorare: nella stagione 2002-2003, la gestione operativa (ossia quella che non tiene conto né dei proventi e degli oneri finanziari, né di quelli straordinari) ha fatto registrare una perdita di poco superiore ai 19 milioni di euro: dunque, circa un milione e 600mila euro al mese. E successivamente non è accaduto nulla che lasci intendere un cambiamento di questo sconfortante andazzo: insomma, da fine giugno a oggi, è ragionevole ipotizzare una perdita di poco superiore agli 11 milioni. Ciò significherebbe, per il Napoli, un patrimonio netto attualmente negativo di circa 7 milioni e mezzo di euro. Strano che amministratori e sindaci tergiversino ancora e non corrano in tribunale a depositare i libri contabili.Ma non è finita qui: grazie alle acrobazie permesse dal legislatore tramite la legge 27, fra le attività della società partenopea è stata iscritta la svalutazione del patrimonio calciatori per 41 milioni e 941mila euro: si tratta però di un buco aggiuntivo in piena regola. Sotto il profilo legale, esso non emergerà fino al giorno in cui la Commissione europea dovesse eventualmente imporre l'abrogazione della "spalma perdite". Invece, sotto l'aspetto patrimoniale, è già reale. Quanto ai rapporti con il fisco, il Napoli ha approfittato delle diverse forme di sanatoria previste nella finanziaria 2003: quella per le liti pendenti (876.800 euro di esborso per cancellare un contenzioso di 21 milioni e 914mila euro), e altre per Irap, Siae e ritenute varie (un milione e 37mila euro da versare per un risparmio di 5 milioni e 566mila euro).Infine, l'eterno contenzioso legale con il Comune per l'affitto dello stadio San Paolo: sono in ballo 10 milioni e 329mila euro. Il Napoli ritiene che non sorgeranno problemi dal giudizio e perciò non ha accantonato alcuna cifra a copertura del rischio. La disputa va avanti addirittura dal 1977 e si riferisce ai canoni fino al 1993, anni durante i quali la società non ha mai pagato una sola lira. E il 10 febbraio scadrà il termine entro cui un vecchio socio, Ellenio Gallo, si è impegnato a non chiedere la cifra da lui vantata: 4 milioni e 268mila euro, così come stabilito da una sentenza del Tribunale di Sala Consilina. E' naturalmente una somma che cresce per via degli interessi. In questa lunga recita all'ombra del Vesuvio, il miglior commento lo avrebbe fatto il grande Eduardo: "Adda passà 'a nuttata". Ma per questo Napoli sarà davvero difficile.

il ciuccio in agonia

Il manifesto 15/04/2003

Conti e paradisi fiscali, la tragica farsa del ciuccio

Un'inchiesta in due puntate sui guai finanziari che rischiano di far sparire il club azzurro dal calcio che conta

MARCO LIGUORI
SALVATORE NAPOLITANO

Quello del Napoli è un triste declino che avanza inesorabilmente su due piani non separabili: quello delle manovre sotterranee per il controllo della società e quello di una gestione ormai da un anno costantemente ai limiti del ricorso al tribunale fallimentare. E' una farsa tragica che si gioca sulla passione dei tifosi, quarti per totale in Italia, ma è il calcio d'oggi: il bacino d'utenza non basta più senza la guida di un gruppo dalle spalle forti e protette, economicamente e politicamente. La vicenda partenopea è una matassa inestricabile, che si estende tra paradisi fiscali come Lussemburgo e San Marino, e che lambisce il Mediocredito Centrale: la banca d'affari del gruppo Capitalia, il cui presidente è il numero uno della Federcalcio, Franco Carraro. Il garbuglio è reso ancor più complicato da una rete di società le cui partecipazioni s'intrecciano. Senza tacere della fitta trama che ancora lega il proprietario storico, Corrado Ferlaino, abituato da sempre a scomparse e a repentine apparizioni, quello uscito da meno di un anno, Giorgio Corbelli, la cui presenza aleggia ancora, e l'ultimo, Salvatore Naldi, destinato a diventare ben presto il penultimo. La società è controllata al 99,93% da una finanziaria lussemburghese, la Napoli Calcio Sa, che a sua volta faceva capo a un'altra società del Granducato, la Sportinvest Sa: quest'ultima, posseduta da Corbelli, ricevette il finanziamento, non ancora restituito, da Mediocredito Centrale per acquistare il Napoli e ha ceduto la propria quota a Naldi, che deve 30,3 milioni di euro a Corbelli. I conti degli azzurri risentono della debolezza economica e finanziaria dei suoi ultimi presidenti. Come se non bastasse, il rosso è stato accentuato dalla retrocessione in serie B: meglio sarebbe il fallimento con annessa ripartenza dalla C2 che prolungare l'agonia. Il bilancio è chiaro: l'esercizio al 30 giugno 2002 si è chiuso con una perdita di 28,86 milioni, che aveva reso addirittura negativo per 2,17 milioni il patrimonio netto. La ricapitalizzazione decisa dall'assemblea straordinaria del 15 luglio ha soltanto fatto sì che la Covisoc potesse dare il via libera all'iscrizione al campionato per una sorta di buona volontà mostrata dalla nuova presidenza, e non certo per il rispetto dei parametri richiesti. E poi il numero due della Federcalcio, Giancarlo Abete, non avrebbe potuto fare un torto così grande ad uno dei suoi associati: Abete è infatti il presidente della Federturismo, alla quale Naldi appartiene essendo imprenditore del settore. Dell'aumento del 15 luglio la parte restante è stata versata venerdì 4 aprile, quando l'assemblea dei soci ne ha dovuto varare subito un altro nel tentativo di rimediare alle nuove perdite accumulate nell'attuale stagione. In effetti, il confronto tra i ricavi è inequivocabile: tra il 2000-2001, anno di A, ed il 2001-2002, anno di B, gli introiti sono crollati da 54,97 a 21,18 milioni. La differenza sta quasi tutta nei minori incassi per la cessione dei diritti televisivi criptati: in A Stream pagò 30,7 milioni, in B appena 5,7. Ma i costi sono scesi molto meno, da 81,17 a 70,89 milioni. Anche il Napoli, come tutti, ha fatto leva sulle plusvalenze: 17,72 milioni, serviti soltanto a diminuire il rosso. Peccato che nel bilancio sia riportato solo l'ammontare di tale voce e non a quali calciatori si riferisca: plusvalenze fittizie? Anche la situazione finanziaria è da brividi, con uno squilibrio tra debiti e crediti di 57,73 milioni. Il Collegio sindacale ha dovuto ricordare agli amministratori di "porre particolare attenzione al raggiungimento dell'equilibrio economico-finanziario, in quanto le passività a breve non coprono le attività a breve". Tra le stranezze ereditate dalla gestione Corbelli, il Napoli è azionista del San Marino Calcio: una società di C2, nata nel 2000, con un capitale sociale di 49.500 euro, diminuito a 45.346 euro nel 2002. Per acquisirne il 33% il Napoli ha sborsato addirittura 1,29 milioni. E la Finarte, controllata da Corbelli, ne è diventata lo sponsor. Visti gli innumerevoli guai, una sola speranza s'impone ai tifosi azzurri: "Adda passà a' nuttata"!
(1-continua)


il manifesto 17/04/2003

Il ciuccio e tre personaggi in cerca di soldi

Corbelli, Naldi e Ferlaino: gli strani legami d'affari della triade che sta affossando il Napoli

MARCO LIGUORI
SALVATORE NAPOLITANO

Se fosse ancora vivo, a Pirandello basterebbero tre soli personaggi per riscrivere una delle sue commedie più famose: Corrado Ferlaino, l'ingegnere dalle mille astuzie; Giorgio Corbelli, l'imprenditore sceso dal nord e creatosi in tempi rapidi; e Salvatore Naldi, familiarmente detto Totò, ricco di famiglia ma imbarcatosi in un'impresa più grande di lui. Un trio ben distante da quello, Maradona-Careca-Giordano, che fece impazzire tutta Napoli a cavallo tra gli anni `80 e '90. Questi tre se ne dicono di tutti i colori, arricchiscono le parcelle dei rispettivi avvocati, fanno pace, si mandano segnali d'amore, per poi ricominciare daccapo. L'ultimo personaggio in ordine di apparizione è Naldi: egli si è trovato in dono, soprattutto grazie al patrimonio della madre, Adelina Fernandes, alberghi e appartamenti che ne fanno una persona molto ricca, ma inadeguata ad affrontare una sfida costosa come quella di essere il principale azionista di una squadra di calcio ambiziosa. E' stato sconsiderato o mantiene l'altrui gioco? Mistero. Naldi narra di soci forti e di contatti internazionali, ma sono bufale, dalle quali, per giunta, non si produce nemmeno la mozzarella. I suoi vantati rapporti di franchising con la Marriott si esauriscono ad un solo albergo, il Flora di Via Veneto a Roma. E, spulciando tra due delle sue società più importanti, la C.e.r.c. e la Tiberio, si scopre che la prima ha chiuso l'ultimo bilancio con un utile di 1,5 miliardi di vecchie lire, solo sfruttando la cessione di qualche immobile: non solo il calcio, ma tutto il mondo, è plusvalenza. La seconda, che doveva fungere da apripista a Capri, alla fine del 2001 non aveva ancora realizzato una sola lira di fatturato. Non a caso Naldi deve ancora pagare 30,7 milioni di euro per rilevare il restante 60% di azioni del Napoli. Per il momento, Corbelli le custodisce in pegno ed ha avviato un'azione presso il Tribunale di Roma per ottenere il saldo, chiedendo il fallimento della S.a.f., la società che possiede l'Hotel Flora. Dal canto suo, l'imprenditore bresciano è l'uomo che ama il Lussemburgo e San Marino. Basta pensare, solo per fare due nomi, alla Gioca e alla Sportinvest: due sue società che hanno sede nel Granducato. Da quando le sue strade si sono incrociate con quelle del Napoli e del suo storico presidente, Ferlaino, tutte le controllanti sono state trasferite in Lussemburgo. Non solo quella della società azzurra, ma anche altre che si occupano di costruzioni. E' un guazzabuglio dal quale emerge con certezza una sola cosa: tra i tre ci sono ancora molti legami di affari. Come la vicenda del centro sportivo Paradiso di Soccavo, dove si allena la squadra. All'epoca della doppia proprietà Ferlaino-Corbelli, il Napoli riscattò il contratto di leasing relativo alla struttura, per poi cederlo successivamente. Il Centro adesso è in mano ad una società che lo ha affittato alla Diciassettezerosette del gruppo dell'imprenditore bresciano, che a sua volta lo ha riaffittato al Napoli. In altre parole, Corbelli è il padrone di casa di Naldi, che, anche in questo caso, non paga. Ma Ferlaino e Corbelli erano soci anche nella Vasto srl, proprietaria, tra gli altri, di Palazzo D'Avalos, prestigioso e centralissimo edificio di Napoli che doveva diventare un centro commerciale. La Vasto è controllata dalla Trigma srl, che fa a sua volta capo alla lussemburghese Vasto Sa. Ora, scorrendo gli appartenenti ai consigli di amministrazione e ai collegi sindacali di Vasto srl e Trigma srl, si notano, oltre a quello di Ferlaino, i nomi di Massimo Matera e Massimo De Martino, professionisti di fiducia di Naldi. Ma per l'ingegnere, le quote di Naldi sono di fatto ancora in mano a Corbelli. Le cose non sono tanto diverse nella Pal.co spa, nel cui azionariato, oltre alla Roto spa, di cui è presidente Ferlaino, figura al 30% l'Italgrani, coinvolta in un vecchio crac. Anche in questa Massimo Matera è tra i sindaci: ma la società, nata con l'obiettivo di costruire un'intera zona residenziale a Giugliano, comune a nord di Napoli, è stata posta in liquidazione dal gennaio 2002. L'unico modo per recidere il nodo gordiano che unisce ancora il Napoli con la triade è il fallimento. Solo a quel punto la società potrà rinascere, senza più essere soggetta alla infinita commedia tra Corbelli, Ferlaino e Naldi.

giovedì 21 febbraio 2008

Nasce un nuovo caso Gea World?

Liberomercato 1 novembre 2007

Contropiede alla Svizzera

Il figlio del presidente Fifa Blatter
Sta per mettere le mani sulla serie A


Marco Liguori

Il colosso svizzero Infront Sports & Media, presieduto dal figlio del presidente Fifa Joseph Blatter, sta per mettere le mani sulla serie A. Stando alla Gazzetta dello Sport, la società starebbe trattando un accordo con la Lega Calcio per produrre lo spettacolo del massimo campionato di calcio. Ma sull’operazione gravano alcuni elementi poco chiari. Liberomercato ha contattato martedì scorso la Infront Sports & Media per ottenere maggiori dettagli riguardo ai suoi azionisti, al suo management e ai principali dati economici, senza ottenere alcuna risposta. La celebre riservatezza svizzera ha lasciato sul sito www.infrontsports.com solo alcune sommarie informazioni sui sei membri del consiglio di amministrazione. Presidente e ceo del gruppo è Philip Blatter, rampollo del numero uno del calcio mondiale: è stato eletto alla vicepresidenza nel dicembre 2005 ed è diventato ceo nella seconda metà del 2006. Tra il giugno e il luglio dello stesso anno si svolsero i mondiali di calcio in Germania: Infront ne ha curato la produzione televisiva, rivendendo i diritti di trasmissione a un vasto numero di televisioni (tra cui 165 pay tv) e radio. La società è presente, oltre in Svizzera, anche in Austria, Cina, Norvegia, Finlandia, Singapore e Svezia: ha come clienti principali la Bundesliga (lega calcio tedesca) e le federazioni internazionali di sci e hockey. Il gruppo ha ottenuto anche la gestione dei diritti per il mondiale 2010 in Sud Africa: su esso grava però l’ombra del conflitto d’interessi in riferimento alla famiglia Blatter.
Nell’ottobre 2006 la svizzera Infront ha acquisito dall’olandese Media Partners International l’italiana Media Partners. Quest’ultima è stata ridenominata in Infront Italy, controllata a sua volta da Infront Italy Holding, e ha una consociata in Lussemburgo. Ne sono amministratori gli stessi di Media Partners: il presidente Marco Bogarelli e i consiglieri Giuseppe Ciocchetti e Andrea Locatelli. L’ultimo bilancio disponibile chiuso al 31 agosto 2006 riporta un utile di poco più di 13mila euro. La società vantava debiti verso fornitori per 33,38 milioni (in gran parte diritti incassati in anticipo) e crediti verso clienti per 31,83 milioni: di questi, 21,46 milioni sono con Telecom Italia, con cui Media Partners ha "sottoscritto un contratto avente come oggetto – si legge nella nota integrativa al bilancio 2005/06 - la vendita dei diritti di trasmissione di partite del campionato di calcio di serie A su determinate piattaforme distributive". Infront Italy ha venduto il 24 ottobre scorso a Rcs Digital (controllata da Rcs quotidiani, editore di Gasport e Corriere della Sera) i diritti audiovideo on line della serie A e della premiere League fino al 2010.


Liberomercato 3 novembre 2007
Errata Corrige
Philip Blatter è il nipote del presidente Fifa
In riferimento all’articolo pubblicato a pagina 6 di Liberomercato nell’edizione di giovedì 1° novembre, da titolo "Il figlio del presidente Fifa Blatter sta per mettere le mani sulla serie A", dobbiamo precisare che Philip Blatter, presidente Infront Sports, in realtà non è il figlio del presidente della Fifa, Joseph. Si tratta invece del nipote. Comunque la sostanza del pesante conflitto d’interessi familiare tra la Infront e la Fifa non cambia.

Fiduciare e Lussemburgo/4

Liberomercato 3 novembre 2007 (pagina 9)

I signori del pallone

Cinque squadre di B col proprietario ombra

Vicenza, Brescia, Piacenza, Bologna e Frosinone sono controllate da fiduciarie violando le norme Figc

Marco Liguori

Dopo la serie A (si veda Liberomercato del 26 ottobre scorso) sono stati visionati gli assetti proprietari delle 22 società del campionato di B. Secondo le ultime visure disponibili in Camera di Commercio due di esse, Vicenza e Brescia, sono controllate da fiduciarie, mentre il Frosinone lo è per il 16,6%. Invece il Piacenza è al 100% di una società olandese, la Mill Hill Investments. Nell’azionariato di uno dei due azionisti di minoranza del Bologna, la 28 Investimenti, vi sono due fiduciarie. Il terzo azionista del Treviso si nasconde dietro la fiduciaria Cofid Italia. Le aziende estere e le fiduciarie sono lecite per la legge ordinaria: sono però in conflitto con l’articolo 16 bis delle norme della Figc sul controllo societario. Secondo il testo, l’eventuale violazione "costituisce illecito" e comporta "l’applicazione delle sanzioni" del Codice di Giustizia Sportiva.
Il viaggio nei misteri del campionato cadetto inizia da Vicenza. La società presieduta da Sergio Cassingena è stata controllata al 94,69% dalla Otto srl, interamente posseduta dalla Finalfa. Quest’ultima (presidente Cassingena), ha come azionisti due fiduciarie: la veneziana Pannorica all’85% e la Fiduciaria Vicentina al 15%. La Otto è stata fusa per incorporazione nella Finalfa alla fine del 2006. Ci si sposta di 120 km e si giunge a Brescia, dove le visure camerali riportano che la squadra locale è controllata al 94,94% dalla Brescia Service srl. L’amministratore unico Luigi Corioni ne possiede il restante 5,06%. La catena di controllo riserva anche in questo caso un mistero: la Brescia Service è al 100% della Sportinvest, il cui controllo è pariteticamente ripartito tra la Nazionale Fiduciaria e la Solofid. Entrambe hanno sede nella "Leonessa d’Italia": la prima è la fiduciaria di Banca Valori (Gruppo Banco Popolare), mentre la Solofid è della Banca Lombarda e Piemontese (Ubi Banca).
E da Brescia si imbocca l’autostrada per arrivare a Piacenza. Visure alla mano, la squadra biancorossa emiliana è presieduta da Fabrizio Garilli, e, oltre al presidente, ha un altro elemento in comune con la Camuzzi: è posseduta al 100% da una società olandese, la Mill Hill Investments con sede a Rotterdam. E da Piacenza si attraversa mezza Italia per arrivare a Frosinone. L’intero capitale sociale della squadra ciociara, il cui amministratore unico è Maurizio Stirpe, è in mano alla Together Fc srl: il presidente è Arnaldo Zeppieri. Questa è controllata a sua volta pariteticamente dal Gruppo Zeppieri Costruzioni e da Bs Servizi. In questa sono presenti due componenti della famiglia Stirpe, Curzio e Patrizia, che hanno il 33,3% del capitale, mentre altri due, Benito e Maurizio, ne sono presidente e amministratore delegato. Il restante 33,3% è di proprietà di un socio nascosto dietro il velo della Cordusio Fiduciaria (Unicredit-Capitalia).
Da Frosinone si torna al Nord. Il Bologna è controllato al 50% dall’azionista di maggioranza Motor City in liquidazione. Gli altri due azionisti al 25% sono la Cogei Costruzioni e la 28 Investimenti. La Motor City è posseduta al 100% dalla Finalca, di cui è socio di riferimento il presidente rossoblù Alfredo Cazzola. Invece, la Cogei è al 93,89% di Renzo Menarini, consigliere del Bologna. Invece 28 Investimenti, presieduta da Mario Bandiera, ha due soci misteriosi dietro Sirefid (98,97%), fiduciaria di Intesa-Sanpaolo, e Fiduciaria VonWiller (1,03%). La 28 Investimenti ha comprato il 10 ottobre scorso dalla sua controllata lussemburghese 31 Invest il 26,19% della Les Copains Holding, il cui azionista di riferimento è Mario Bandiera. Insieme a Cogei (25%) e Motor City (50%) Les Copains ha il 25% di Aktiva, che dovrà costruire il nuovo stadio di Bologna.
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il pallone in confusione

Registrazione n° 61 del 28 settembre 2009 presso il Tribunale di Napoli
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Editore e direttore responsabile: Marco Liguori

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