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giovedì 13 marzo 2008

laurea o non laurea?

il manifesto 20 febbraio 2004

Un supermanager vi seppellirà


di Marco Liguori e Salvatore Napolitano

A Roma, come del resto in Italia, un titolo di dottore non si nega a nessuno: nemmeno a Luca Baraldi, il supermanager che da mesi viene indicato da più parti come unico salvatore possibile per il disastrato calcio italiano. L'ex amministratore delegato della Lazio, tornato al Parma da poche settimane, compare appunto con questa qualifica in tutte le comunicazioni ufficiali della società biancoceleste alla Borsa. Come, ad esempio, la trimestrale al 31 marzo 2003, il bilancio al 30 giugno 2003 e il prospetto informativo dell'aumento di capitale dell'estate scorsa. E anche nei contratti firmati con i calciatori laziali il timbro recante il suo nome contiene la sigla di dottore: «Sono laureato in economia e commercio», ha spiegato al telefono. Ma non ha voluto rivelare né l'Università, né l'anno di laurea: «Questione di principio», ha detto. Alla Lazio riferiscono di non avergli mai chiesto il titolo di studio, ma di supporre che fosse laureato, visto il ruolo che occupava.
E allora bisogna andare molto a ritroso nel tempo. Ne ha fatta di strada, e non solo nel mondo del calcio, quel giovane difensore dai piedi ruvidi di cui qualcuno conserva ancora memoria a Modena. Era la fine degli anni Settanta, periodo in cui i «canarini» retrocessero dalla serie B alla C1. Da allora, Baraldi non ha più sbagliato una mossa: soprattutto il 2003 è stato il suo anno. E' arrivato alla Lazio dopo una folgorante ascesa: partì dalla Banca Popolare dell'Emilia Romagna, dove era arrivato a dirigere l'agenzia di Collecchio e da cui uscì nel 1994. Passò poi all'istituto di credito francese Indosuez, prima dell'approdo alla Banca del Monte di Parma, dove divenne in breve vice direttore generale: andò via nel maggio 2001, e un paio di mesi dopo fu cooptato da Calisto Tanzi al Parma Calcio come direttore generale, e, successivamente, catapultato nella Capitale per salvare la Lazio. Alla Popolare dell'Emilia Romagna lo ricordano, documenti ufficiali alla mano, come ragioniere: stesso discorso alla Banca del Monte di Parma. Si sarà dunque laureato dopo il maggio 2001 tra il salvataggio del Parma e quello della Lazio.
Proprio i dieci mesi trascorsi a Formello, dove è approdato il 3 gennaio 2003 per andarsene il 3 novembre, sono stati un vero capolavoro: per lui, non per la società biancoceleste. E' tutto scritto nei bilanci: sotto la sua guida, la Lazio ha chiuso con un rosso di 121,86 milioni. Nell'esercizio precedente, l'ultimo sotto la guida di Sergio Cragnotti, le perdite erano state inferiori, perché pari a 103,05 milioni. E' vero che Baraldi ha preso la guida a metà dell'esercizio 2002-2003 e che si è imbattuto in crediti inesigibili iscritti a bilancio dalla precedente gestione, o addirittura mai sorti come un famoso credito di 17 milioni e 648mila euro verso l'Erario, contestato dal collegio sindacale, ma è altrettanto vero che ha potuto sfruttare l'ineffabile legge 27, meglio conosciuta come «spalma perdite», che ha consentito di abbattere il valore del patrimonio calciatori, ripartendo in dieci anni la perdita emergente. Un risparmio considerevole, dal momento che la Lazio ha effettuato una svalutazione di circa 213 milioni, e ha applicato la legge seguendo l'interpretazione della Lega calcio e non quella dell'O.I.C., l'Organismo italiano di contabilità, che certo doveva avere una valenza maggiore: ciò ha prodotto un risparmio ulteriore di 54milioni e 400mila euro.
E il progetto con il quale la società biancoceleste sarebbe uscita fuori dal tunnel, pomposamente denominato come «piano Baraldi»? Una comica: l'ex amministratore delegato biancoceleste asserisce di aver dimezzato il monte stipendi. Lo ha ribadito anche nelle ultime settimane. Persino uno svogliato studente di ragionieria reputerebbe sbagliata questa affermazione: il piano prevede che il 55% dello stipendio sia pagato subito, e il restante 45% in 36 rate mensili di pari importo con decorrenza primo luglio 2005 o dalla data di scadenza del contratto se antecedente. Altro che dimezzamento. Il costo resta assolutamente invariato: ciò che cambia è solo la natura del debito, una parte del quale diventa di lungo periodo. Il «piano Baraldi» consta anche di altri elementi: la conversione in azioni dell'equivalente di cinque mesi di stipendio dei calciatori e la richiesta di rateizzazione in dieci anni dei debiti verso l'Erario per l'Irpef sui redditi dei calciatori. Per quanto riguarda la conversione, per ora è saltata perché non è stata approvata dall'assemblea dei soci entro la prevista scadenza del 20 dicembre. Quanto alla rateizzazione, la legge impone come obbligatorie le garanzie bancarie che la Lazio non è riuscita a ottenere. Non a caso, l'Agenzia delle Entrate non ha ancora risposto alla richiesta, fatta il 18 luglio. Per il suo operato, Baraldi ha ricevuto poco meno di sei milioni di euro lordi. Un milione e 477mila in qualità di amministatrore delegato, 4 milioni e 512mila come direttore generale. Di questa somma fa parte anche un bonus di 2 milioni e 96mila euro, legato al raggiungimento dell'obiettivo di diminuire il monte stipendi laziale del 25%. E chi è stato a giudicare centrato il risultato? Naturalmente, i vertici dirigenziali, tra cui spicca l'amministratore delegato: ossia proprio Baraldi. E' il motivo per cui la Lazio vorrebbe recuperare quel bonus.
Non è tutto. Baraldi è evidentemente ubiquo: poche settimane dopo essere giunto nella Capitale, a fine gennaio 2003 è stato nominato consigliere di amministrazione di Parmatour e il 14 marzo consigliere di Telemec, società editrice di alcune televisioni locali del parmigiano e del piacentino: entrambe le aziende facevano capo alla famiglia Tanzi. In ogni caso, Baraldi ha un fiuto sopraffino: poco prima dello scoppio della bufera Parmalat, precisamente a luglio, è uscito dal cda di Parmatour. I motivi? Perché ha «contestato dei verbali» e perché aveva «troppi impegni a Roma». Ma li aveva anche quando accettò la nomina. E a metà gennaio 2004, in concomitanza con la sua nomina ad amministratore delegato del Parma, si è dimesso anche dal suo incarico alla Telemec. Ora è in corsa per sostituire l'ex presidente del Parma, Stefano Tanzi, come vicepresidente della Lega calcio. La scalata continua.

mercoledì 12 marzo 2008

Buio a San Siro

Altro che partita perfetta, Mancini ha commesso ieri sera tutti e sette i peccati capitali. E Pippahimovic sembrava il protagonista di una puntata di Chi l'ha visto...

di Paolo Ziliani
da www.paoloziliani.it

i 15 gol di Moratti non aveva creduto nessuno; ma alla Partita Perfetta di cui aveva parlato Mancini, forse, qualcuno sì. Invece, ecco l'Inter giocare la solita Partita Farlocca, perdere col Liverpool a San Siro e uscire, come un anno fa (Valencia), come due anni fa (Villareal), come tre anni fa (Milan) al primo ostacolo serio incontrato sul suo cammino in Champions League. Due a zero all'Anfield Road (in 10 per il rosso a Materazzi), uno a zero a San Siro (in 10 per il rosso a Burdisso): un'eliminazione che definire deprimente è un complimento. Com'è stata, dunque, la Partita Perfetta che l'Armata di Mancini avrebbe dovuto sfoderare per sbriciolare il Liverpool? Ve la raccontiamo.

Pronti-via, le prime due cose che balzano agli occhi sono Burdisso esterno sinistro nella difesa a 4 dell'Inter (dunque Chivu, schierato centrale a fianco di Rivas a dispetto dell'infortunio alla spalla, sta bene); e Carragher spostato a destra nella difesa a 4 dei Reds (al centro, accanto a Hyypia, Benitez ha inserito Skrtel). Dopo pochi minuti, mentre Carragher comincia a fare la sua parte da ottimo difensore qual è, la domanda che tutti si pongono è: a cosa serve Burdisso? Siccome c'è una partita da vincere 3-0 – almeno su questo, non ci piove -, non sarebbe il caso di retrocedere al posto del n. 16 Zanetti e di inserire un Figo o un Jimenez? La mossa di Burdisso appare due volte folle per un'altra ragione: l'argentino - bravo ragazzo, per carità – è l'inaffidabilità fatta difensore, visto che una partita sì e l'altra pure rischia il rosso. Il nostro eroe somiglia sinistramente al Materazzi prima maniera, quello cui la curva urlava “Picchia per noi!” e lui, tutto felice, eseguiva: e se in Italia una volta gli va bene e una male (per esempio: in Inter-Juventus 2-2, Coppa Italia, Farina lo caccia dal campo per rosso diretto al minuto 9, mentre in Inter-Roma 1-1, campionato, Rosetti se la fa sotto, finge di non vedere una sua entrata spacca-caviglia su Taddei e lo lascia in campo, già ammonito, evitando all'Inter, sotto di un gol e in 10 per l'uscita di Maxwell, il naufragio), in Europa arbitri cacasotto non se ne trovano. Risultato: alla mezzora, ecco l'arbitro norvegese Ovrebo sventolare sotto il naso di Burdisso il cartellino giallo. Kuyt gli sta sgusciando via a metà campo, lungo la linea di fondo, e Burdisso – cadendo – non trova niente di meglio da fare che alzare lo scarpone all'altezza del naso dell'attaccante. Pensierino della sera: Burdisso ammonito alla mezzora significa Inter a rischio massimo di restare, al più presto, in 10 uomini. A San Siro (e in tivù) lo sanno anche i bambini.

Ma Burdisso a parte: come va, intanto, il match? Mica tanto bene, per l'Inter. Se è vero che a tutti è stato chiesto di giocare la Partita Perfetta, fa sorridere che il vero leone in campo – fra i guerrieri nerazzurri – sia Rivas. Sì, avete capito bene Rivas: il migliore in campo è di gran lunga il giovane colombiano, che è la settima o ottava scelta nella difesa di Mancini. È lui che se la vede, spesso da solo, col pericolo pubblico numero 1, Torres: ebbene, Rivas sbaglia pochissimo, anzi quasi niente. E gli altri? Zanetti ha cominciato a fare, da subito, le azioni alla disperata – palla portata in corsa, di peso, da un'area all'altra –, azioni che avrebbe un senso vedere all'80', quando gli assalti all'arma bianca diventano indispensabili. Vieira è il solito dromedario: va ai 2 all'ora, sbuffa e traccheggia ma incide zero (se non ricordiamo male, l'ultima volta che è stato in forma fu alla Juve, appena arrivato, estate-autunno del 2005). Stankovic è claudicante da un anno esatto, per l'esattezza dal giorno di Livorno-Inter 1-2, quando si fece male 3 giorni prima di Valencia-Inter (che giocò da zombi): e Inter-Liverpool gli serve se non altro per entrare nel Guinness dei Primati alla voce “calciatore con l'acciacco più lungo della storia”.

E Ibrahimovic? Ibrahimovic non c'è. Perché Mancini, come sempre in Champions League, ha mandato in campo il suo sosia, Pippahimovic, che gli somiglia molto, ha il numero 8 sulla schiena e probabilmente è un lontano parente di Cimabue: quello che fa una cosa e ne sbaglia due. Una cosa buona, a dire il vero, Pippahimovic la fa: a metà primo tempo – credendosi Ibra – mette Cruz solo davanti a Reina, sia pure decentrato a sinistra. Cruz vede Stankovic acciaccato solo a centro area, preferisce tirare, la palla esce di pochissimo. L'assist per Cruz, davvero pregevole, è l'unica cosa buona che Pippahimovic combina in quella che dovrebbe essere la Partita Perfetta. Si mangia un gol fatto quando Skrtel, con uno svarione, lo lancia a tu per tu con Reina; tira 3 o 4 punizioni una più brutta dell'altra (per inciso: Gerrard, che gioca una partita orrida, tira una punizione e a momenti fa gol); perde una montagna e mezzo di palloni e ci si chiede – appunto – perché Mancini in Europa si ostini a mandare in campo lui, e non Ibra, quello che segna sempre all'Empoli e al Parma e che avrebbe meritato, come si sa, il Pallone d'oro. Altro che quella schiappa di Kakà.

Ancora. Maicon gioca 40 minuti in catalessi, si risveglia una volta, ne approfitta per fare la cosa che dovrebbe cercare di fare 7-8 volte, nella Partita Perfetta: cioè andare sul fondo e metterla in mezzo (dove Cruz, forse temendo che alle sue spalle ci sia il claudicante Stankovic, tocca di tacco: Reina in qualche modo arraffa palla e sventa). Detto che Cambiasso anche stasera non sembra Matthaeus – e nemmeno Simeone – , per trovare il secondo giocatore in forma dell'Inter bisogna tornare al centro della difesa: dove accanto a Tyson Rivas, che gioca una Partita Eccellente, troviamo Chivu, mandato in campo con una spalla tenuta insieme col Lego, e però bravo, coraggioso, autoritario, lucido.

Il primo tempo finisce 0-0, con Burdisso ammonito e Rivas e Chivu migliori in campo (nell'Inter, perlomeno) e la domanda è: dov'è l'errore? Bisogna segnare 3 gol al Liverpool e i trascinatori sono i due difensori centrali: un colombiano alle prime armi e un difensore che sulla schiena ha scritto Enrico Toti? Come diceva quello: sogno o son desto?

Secondo tempo. Drammaticamente, l'Inter torna in campo così com'era uscita. C'è il dromedario Vieira, c'è il cigolante Stankovic, c'è il sosia di Ibrahimovic, Pippahimovic; ci sono lo sbadigliante Maicon e il centometrista Zanetti ma soprattutto c'è ancora lui, l'inutile e catastrofico Burdisso. Possibile, ci si domanda? Possibile. A Mancini, Burdisso deve piacere moltissimo: tant'è vero che anche un anno fa, nella serata tragica di Valencia, lo schierò titolare. Risultato: naufragio ieri, naufragio oggi. Il cronometro non ha ancora scandito il minuto 50 ed eccolo lì, Bertoldo Burdisso, seduto nell'erba a guardare – stranito – il cartellino rosso che l'arbitro norvegese, meno cacasotto di Rosetti, gli sventola in faccia. Ne converrete: siamo al ridicolo! E la domanda è: caro Mancini, tu che hai passato i primi 15 minuti a scattare dalla panchina – come tarantolato – chiedendo il giallo per ogni banale fallo dei giocatori del Liverpool (comportamento ridicolo, a questi livelli: avete mai visto un Ferguson, o un Benitez, dare in escandescenze in Champions League come fossero al Torneo dei Bar nella finale unica Bar Sport contro Bar Moka?), caro Mancini – dicevamo - davvero non hai pensato di mandare calamità-Burdisso sotto la doccia, nell'intervallo? Ma non sei tu l'allenatore dell'Inter? Non sei tu l'allenatore che ha visto Burdisso uscire per un rosso, dopo 9 minuti, contro la Juve in Coppa Italia? Non sei tu l'allenatore che ha sudato freddo quando Rosetti – per tua fortuna - ha fatto finta di non vedere l'entrata inaudita di Burdisso, già ammonito, sulle caviglie di Taddei, al 60' di Inter-Roma? Un'entrata da rosso diretto che se fosse stata sanzionata avrebbe visto l'Inter colare a picco e la Roma, oggi, a meno 3 in classifica? Per favore Mancini, diccelo: perché non hai pensato di togliere di mezzo Burdisso, che oltre a non essere Beckenbauer era il giocatore più inutile, oltre che potenzialmente dannoso, in campo nell'Inter? Non dirci che non ci hai pensato. Dicci che per te Burdisso è Maradona, così almeno capiamo. O se non altro, ci adeguiamo.

E così: con l'Inter in 10 uomini – ormai siamo alla barzelletta – il Liverpool affonda il colpo e segna l'1-0. Lo fa con Torres, che prende d'infilata Rivas e Chivu lasciati soli al loro destino. Baci, abbracci e titoli di coda.

lunedì 10 marzo 2008

E il pallone va…

Dopo l’ennesimo errore arbitrale in Napoli-Roma di ieri, con il rigore concesso ai giallorossi che non c’era, si impone la moviola in campo. Un elemento indispensabile nell’era del calcio a scopo di lucro. Ma sulle "diaboliche invenzioni" tecnologiche il presidente della Fifa, Joseph Blatter, e l’International Board non vogliono proprio sentire ragioni

Marco Liguori
Si levino gli squilli di tromba, le fanfare e i peana sul gioco della Roma e le prodezze di Totti! Che la stampa nazionale celebri ancora che il campionato è ancora una volta salvo! Prosegue dunque il duello dei romanisti con l’Inter per lo scudetto. Ma tutti dimenticano gli ennesimi e ormai purtroppo cronici errori arbitrali. Ieri sera su numerose tv private è stato dimostrato e stradimostrato, grazie a quello strumento "diabolico" che il rigore concesso alla Roma contro il Napoli dall’arbitro Massimiliano Saccani non c’era. Nessuno osa togliere i meriti della squadra giallorossa, che possiede un gioco quasi perfetto fatto di pressing e di passaggi corti e rapidi, ma la decisione del direttore di gara ha tagliato le gambe alla reazione del Napoli che, per la pochezza del gioco espresso soprattutto nel primo tempo, era già con la testa alla sfida con la Juventus di domenica prossima. La squadra azzurra sotto di un gol, si è vista fischiare la massima punizione per un contatto in area tra Cicinho e Mannini. Nelle immagini si vede chiaramente che tra i due non c’è quasi contatto: anzi, il romanista è scivolato per terra come se sul tappeto erboso del San Paolo fosse stato ricoperto di un ipotetico strato di acqua e sapone.
Per eliminare l’ennesima stortura domenicale causata da un errore arbitrale si invoca ancora una volta la moviola in campo. Magari richiesta per un numero limitato di volte come nel basket. Ma proprio sabato scorso l’International Board, riunito a Londra, ha detto il suo "no" definitivo a qualsiasi sistema elettronico che possa risolvere il problema dei "gol fantasma" con cinque voti contro e tre a favore. Tra essi spicca quello pesantissimo del presidente della Fifa, Joseph Blatter. Figuriamoci se l’organismo che custodisce le regole del calcio dal lontano 1886 avrebbe mai potuto dire sì alla moviola in campo! Anzi, sembra proprio che Blatter e gli altri membri siano rimasti fermi alle romantiche e ingiallite immagini del calcio di fine ottocento, con i giocatori in campo con le retine fermacapelli. L’era del calcio a scopo di lucro non li tange neanche un po’. Eppure in questa era un grave errore arbitrale può condizionare i ricavi di una squadra: ad esempio, un risultato negativo può impedire la partecipazione alle coppe europee oppure, peggio ancora, determinare una retrocessione alla serie inferiore con conseguenze vicine alla "morte civile" per una squadra di calcio. Ma lo spettacolo continua ad andare avanti, con i giornalisti che predicano miglioramenti, i tifosi che protestano (anche perché pagano profumatamente biglietti e abbonamenti alla stadio o quelli alle pay tv) e le moviole rimaste rinchiuse sul piccolo schermo come gli indiani d’America nelle riserve. Insomma, per parafrasare il titolo di un film del grande Federico Fellini, "il pallone va…".

domenica 9 marzo 2008

tutto cominciò con questo articolo sulla Lazio...

Ringrazio Stefano Prizio di Fiorentina.it per averlo ancora conservato in archivio su
http://www.fiorentina.it/Notizia.asp?IDNotizia=11503&IDCategoria=27 assieme a tutti gli altri scritti da me e Salvatore Napolitano su Bloomberg Investimenti e Il Manifesto.
Pubblico anche il suo commento in corsivo, redatto all'epoca

Bloomberg Investimenti 25 gennaio 2003

Lazio dei misteri...

Ecco l'articolo, a firma Marco Liguori e Salvatore Napolitano, apparso stamattina sul settimanale finanziario Bloomberg Investimenti riguardo la disastrosa situazione contabile della Lazio e le strane circostanze che ne hanno permesso l'iscrizione al campionato di serie A. L'ex presidente Sergio Cragnotti ha affermato ieri in un'intervista al quotidiano torinese La Stampa che «la Lazio non era paragonabile a quella della Fiorentina».

Marco Liguori
Salvatore Napolitano

Il miracolo di cui si legge sulle pagine sportive di tutti i giornali a proposito della Lazio è riferito alla posizione in classifica e al bel gioco espresso. Ma il vero miracolo è un altro e si è materializzato in una calda giornata di fine luglio. In quei giorni, la mannaia della Covisoc, la commissione di controllo sulle società calcistiche, e della Federcalcio stava per abbattersi sulla Fiorentina, cancellandola dai campionati professionistici: un danno solo per gli incolpevoli tifosi viola. Per loro era in arrivo anche la beffa: il salvataggio della Lazio. Un vero miracolo, appunto. Di quel salvataggio ha gioito il presidente federale Franco Carraro, che è anche presidente di Mediocredito Centrale, istituto bancario nell'orbita del gruppo Capitalia. Guarda caso, proprio Mediocredito è il secondo azionista della Lazio con il 5,569%. Ma ha gioito anche Giancarlo Abete, vice presidente federale, fratello di Luigi, presidente della Bnl, terza azionista della Lazio con il 4,49%. E gli Abete e Cragnotti sono soci nel Poligrafico Calcografia e Cartevalori, uno dei marchi italiani più noti nel settore grafico. Inoltre, Capitalia e Bnl hanno in pegno tutte le azioni Lazio possedute dalla Cirio, pari al 50,966% e ripartite tra Cirio finanziaria (35,82%) e Cirio Holding (15,145%). Il salvataggio ruota intorno all'articolo 86 delle norme federali. Esso disciplina il requisito principale richiesto: l'equilibrio finanziario. Il rapporto tra i ricavi e l'indebitamento deve essere non inferiore a tre: le società hanno tempo fino al 15 luglio per regolarizzare la loro posizione. Nel caso della Lazio i ricavi 2002 sono stati di circa 112 milioni di euro. Dunque, i debiti non potevano superare i 37,3 milioni. Per capire sommariamente le cifre del bilancio facciamo un piccolo passo indietro: esattamente al 31 marzo 2002. A quella data, la Lazio era fuori dal parametro: lo riconosceva la stessa società nel prospetto informativo dell'aumento di capitale pubblicato a fine giugno. Il perché è di evidenza solare: un indebitamento netto complessivo di 283,76 milioni di euro, 137,07 dei quali di tipo prettamente finanziario. Niente male per una società che ne fattura annualmente meno della metà. E che la Lazio non avesse molti estimatori nemmeno tra i suoi dirigenti risulta chiaro ove si consideri che Elisabetta, Andrea e Massimo Cragnotti, rispettivamente vice presidente esecutivo, consigliere e direttore generale, possedevano ciascuno la miseria di 111 azioni. Alla chiusura del bilancio, che per le società di calcio è fissato per il 30 giugno, la situazione era divenuta persino più allarmante: 303,79 milioni di euro di indebitamento netto complessivo, con una perdita di 103 milioni e spiccioli. In altre parole, per ogni euro incassato, la Lazio ne ha spesi all'incirca due. Certo, non tutto l'indebitamento di bilancio concorre alla determinazione di quello usato per il calcolo del parametro necessario all'iscrizione: vanno esclusi i finanziamenti infruttiferi e postegrati, che si aggiravano sui 60 milioni. Ma la situazione di dissesto economico e finanziario era chiarissima: per la Deloitte & Touche, incaricata della revisione del bilancio, la società era «in una posizione di squilibrio finanziario in quanto le passività correnti superano in misura significativa le attività correnti». Ma anche il Collegio Sindacale non ha potuto esimersi dal chiudere la sua relazione con parole inequivocabili: «Con specifico riferimento alle rilevanti perplessità e dubbi in ordine alla permanenza del presupposto della continuità aziendale sul quale la società ha redatto il bilancio, non si può esprimere parere favorevole alla sua approvazione». Né la situazione è migliorata in seguito: al 30 novembre, secondo quanto comunicato alla Consob, solo l'indebitamento di tipo prettamente finanziario e quello verso tesserati, Erario ed Enti previdenziali era pari a 192,9 milioni. A proposito di tesserati, Ivan De la Pena vanta ancora un credito di circa 4 milioni. E, tramite il suo legale, l'avv. Domenico Latino, si appresta a proporre una nuova istanza di fallimento perché la Lazio non ha rispettato le clausole dell’accordo transattivo stipulato lo scorso 2 dicembre. Vista la situazione, ci saranno altri miracoli in casa laziale?

Il 27 gennaio potrebbe essere dato il via libera all'aumento di capitale della Lazio da 80 milioni di euro. Ma c'è una chicca che riguarda il famoso aumento di capitale da 55 milioni, che si rese necessario a metà luglio per dare un po' di sollievo alle casse esangui della società, e tramite il quale Mediocredito centrale e Bnl sono diventati azionisti. Cirio Finanziaria e Cirio Holding, detentrici del 35,82% e del 15,145%, sottoscrissero e versarono le somme di loro competenza, pari rispettivamente a 19,6 e a 8,33 milioni di euro. Era il 15 luglio. Ma la Lazio non fece nemmeno in tempo ad annusare quei soldi. Perché contestualmente, la società dette ordine al Mediocredito centrale di accreditare a Cirio Finanziaria e a Cirio Holding i medesimi importi appena ricevuti. Questa seconda operazione fu comunicata in tempi successivi: e ha provocato le rimostranze del Collegio Sindacale, che, nella relazione al bilancio, ha osservato che essa ha «vanificato in capo alla società i benefici finanziari» dell’aumento di capitale.

La vendita di Zidane e Inzaghi salva il bilancio

Bloomberg Investimenti 15 febbraio 2003

Juve Paperona? Insomma....

Marco Liguori
Salvatore Napolitano

La Juventus è un gigante dalle gambe fragili: il riferimento non è ai muscoli di Alessandro Del Piero o ai tendini di David Trezeguet, ma allo stato del bilancio, solo apparentemente in ordine. Ad una lettura meno superficiale saltano subito all’occhio problemi non trascurabili. Certo, l’utile dell'esercizio 2002, pari a 6,13 milioni di euro, è in linea con quello dei quattro precedenti. Ma sono utili determinati esclusivamente dalle ormai famose plusvalenze, cui le società calcistiche fanno ampio ricorso, e sempre più di frequente in modo fittizio, ossia scambiandosi vicendevolmente giocatori ad un prezzo gonfiato, ma senza passaggi di danaro, in modo da imputare all’esercizio in scadenza il ricavo ottenuto, appesantendo però lo stato patrimoniale con l’eccessivo costo di acquisizione. Riguardo alla Juventus non è possibile affermare il suo ricorso a tale metodo: ma solo perché la società si è ben guardata negli anni passati dallo specificare le plusvalenze realizzate sui singoli calciatori, limitandosi a scriverne l'ammontare complessivo. Circostanza strana dal momento che, ad esempio, nel bilancio 2001, venivano indicati persino costi di 4.000 euro come tassa di iscrizione a gare o nel 2000 ricavi per 6.714 euro da gare delle squadre minori. Quanto alle plusvalenze dal 1998 al 2001, sono state liquidate con semplici importi: 28,1, 11,8, 35,9 e 20,47 milioni di euro. Ma che anche la Juve si sia lasciata andare al meccanismo delle plusvalenze incrociate lo si può intuire osservando che nel bilancio 2000 il Milan conseguì un utile di circa 10 miliardi di lire vendendo ai bianconeri lo sconosciuto Matteo Beretta. A ciò si aggiunge il fatto che al 30 giugno 2002 la Juve ha iscritto una voce ambigua di “diritti pluriennali su altri professionisti” a un costo storico molto alto di 51,7 milioni di euro. Nel bilancio 2002 per la prima volta le plusvalenze sono comparse: potenza di Piazza Affari. Sono tutti soldi veri, pari ad una mega-cifra di 123,89 milioni di euro, grazie soprattutto a Zinedine Zidane e Filippo Inzaghi. Senza quelle cessioni il bilancio si sarebbe chiuso con la più grave perdita della storia bianconera: 96,65 milioni. Davvero troppo per una società che ne ha fatturati 177,1. Tanto che, se tale perdita dovesse essere replicata nel 2003, il capitale netto, pari a 99,53 milioni, sarebbe praticamente azzerato. L'unica cessione in grado di dare un po’ di respiro sarebbe quella di Del Piero, quasi del tutto ammortizzato e iscritto a bilancio a soli 72.000 euro. Ma i soldi nel calcio sono finiti e l'eventuale plusvalenza su Pinturicchio lenirebbe appena le ferite. Occorrerebbe tagliare i costi: la voce salari e stipendi è cresciuta in soli quattro anni da 46,57 a 133,8 milioni. Circa il 10% di tale costo è attribuito ai diritti di sfruttamento dell'immagine dei calciatori, che ha attirato l'attenzione della Guardia di Finanza su altre società per verificare che non fossero stipendi mascherati. Il piano di ridimensionamento dei costi che la Juve ha in mente è per ora solo un auspicio. Anche dal punto di vista finanziario la situazione non è affatto rosea. Certo, i conti superano agevolmente l'esame della Covisoc: ma solo perché le norme federali e la loro interpretazione hanno delle maglie talmente larghe da consentire delle acrobazie spericolate. E’ la voce risconti passivi a fare la differenza: addirittura 150,4 milioni, derivanti principalmente dall'incasso anticipato dei diritti criptati delle partite casalinghe dell'attuale e del prossimo campionato. Soldi praticamente già spesi. E’ una voce che non rientra nel calcolo dell'indebitamento ai fini della determinazione del parametro necessario all'iscrizione al campionato (rapporto ricavi/indebitamento non inferiore a tre). Ma, in base a tutte le regole di contabilità aziendale, è una passività. In più il rapporto tra i mezzi propri (99,53 milioni) e quelli di terzi (401,01) è pericolosamente sbilanciato. Infine i mezzi propri sono ben lungi dal coprire le immobilizzazioni (250.9 milioni). Ma sui bilanci bianconeri sono iscritti anche i 600mila euro di consulenza che la Juventus ha corrisposto alla Football Management srl. Quest’ultima è la società della quale Alessandro Moggi, figlio del d.g. della Juve Luciano, possedeva il 50% e, dal 29 ottobre scorso, il 60%, e che detiene il 45% della Gea, società nata nell’ottobre 2001 che ha già acquisito la procura di numerosi calciatori e allenatori.

Il Mostro Juve....
Gli abitanti di Nichelino lo hanno ribattezzato “Mostrojuve”: in realtà si chiama Mondojuve. Parliamo del progetto che ha spinto la Juventus a quotarsi in Borsa e chiedere le risorse necessarie, pari a circa 130 milioni di euro. Peccato che l'introito del collocamento sia stato solamente di 62,6 milioni. Si tratta della costruzione (che sarebbe dovuta partire alla fine del 2002) di una serie di campi e attrezzature sportive nel Comune di Vinovo e di un enorme centro commerciale in quello di Nichelino. Un'area complessiva di circa 500mila metri quadrati sita a sud della periferia di Torino, a pochi passi dall'area industriale Fiat di Mirafiori e non lontano dal Lingotto. Il luogo scelto per l’edificazione è posseduto dalla società Campi di Vinovo, controllata interamente dalla Juventus, su cui sorgeva un ippodromo e un campo da golf. L'appellativo “Mostrojuve” al progetto è stato ripreso dal variegato schieramento di opposizione del Comune di Nichelino, composto da Alleanza Nazionale, Forza Italia, Rifondazione Comunista e da una parte della Margherita. Le quattro formazioni politiche hanno dato battaglia in Consiglio comunale opponendosi alla variante di destinazione d'uso dell'area scelta. Quest’ultima confina con la riserva protetta del parco della palazzina di Stupinigi, antico luogo di caccia dei Savoia. «La colata di cemento di Mondojuve» sostengono i consiglieri comunali «deturperebbe questa riserva protetta dalla leggi sull'ambiente. Inoltre» continuano «con la realizzazione di nuove infrastrutture stradali si congestionerebbe il traffico della zona. Senza contare poi il rischio di strangolamento del commercio locale». In aula la variante è passata, grazie alla schiacciante maggioranza. Tuttavia sul piano pende il voluminoso faldone della Regione Piemonte, competente a dare l'ultima parola sulla sua fattibilità. La Giunta comunale di Nichelino (Ds, lista civica e Sdi) ha risposto alle osservazioni della Regione, abbassando l'altezza degli edifici e progettando giardini pensili per mitigare gli effetti dell'impatto ambientale. Le opposizioni ribattono che ciò non basta: anzi si creerebbero degli scompensi idrogeologici. M. L. S. N.

La Borsa mi conviene! Parola di Giraudo...
Oltre che per l’azionista di controllo Ifi, lo sbarco della Juventus in Borsa è stato un vero affare soltanto per il suo amministratore delegato Antonio Giraudo. L'esordio della società bianconera in Piazza Affari è avvennuto il 20 dicembre 2001. Il prezzo di collocamento era di 3,7 euro. Venerdì 14 febbraio il titolo oscillava intorno a 1,22 euro: dunque, ha perso insomma i due terzi del valore del collocamento, facendo peggio dell'indice Mibtel, che nello stesso periodo è sceso circa del 25%. Un tale rovescio non ha influito affatto sul portafoglio di Giraudo. L’a.d. ha comprato 1.600.000 azioni nel novembre 2001 al prezzo di 0,21 euro per rivenderle tutte il mese dopo al prezzo di collocamento, con una plusvalenza immediata di circa 5,58 milioni di euro. E nello stesso mese di dicembre, ne ha immediatamente ricomprate 4.380.100, sempre a 0,21 euro, spendendo poco meno di 920mila euro. Un analogo trattamento di favore spetta anche al vice presidente Roberto Bettega e al direttore generale Luciano Moggi. Si saprà soltanto a fine marzo se i due hanno esercitato la rispettiva opzione di acquisto di 347.525 azioni al prezzo di 0,21 euro.

Un sostanzioso aiuto dall'Ifil

Bloomberg Investimenti 22 febbraio 2003

Fiat? Ma il pallone è sovrano...

La controllante Ifi è costretta a dare una mano sempre più sostanziosa alla Juventus. Colpa del deterioramento qualitativo negli anni del bilancio bianconero. Nell'ultimo esercizio, infatti, la Ifi ha dovuto garantire i debiti contratti nella sola campagna acquisti 2001-2002 con delle fidejussioni per un importo totale di 86,94 milioni di euro: di questi, 41,08 milioni sono relativi a pagamenti da effettuarsi nell’attuale stagione, 38,11 milioni per gli esborsi da compiere nella stagione 2003-2004, e, infine, 7,75 milioni per quelli della stagione 2004-2005. L’aiuto è stato conferito in un momento difficile nella storia della Fiat, di cui Ifi detiene il 18,18%. Soltanto un anno prima erano bastate garanzie per 9,2 milioni, mentre nel 2000 l’Ifi se l'era cavata con soli 2,32 milioni. Se l'utile nel 2002 è stato conseguito solo grazie alle ricche plusvalenze incassate con le cessioni di Zinedine Zidane e di Filippo Inzaghi, ripetere l'impresa nel 2003 sarà arduo: la festa del calcio è abbondantemente finita e l'esercizio è partito con difficoltà. Il primo semestre si è infatti chiuso con un risultato netto in rosso di 4,2 milioni, in diminuzione verticale rispetto al saldo positivo di 37,3 milioni del corrispondente periodo dell’esercizio precedente. La gestione di una società di calcio dipende ormai cronicamente dai proventi straordinari, ossia dai ricavi che si riescono a realizzare nel corso della campagna trasferimenti. Il 30 giugno 2002, la società bianconera ha posto termine ad una situazione anomala: fino ad allora, e precisamente a partire dal 9 maggio 1994, il suo amministratore delegato Antonio Giraudo aveva la qualifica di dipendente Ifi distaccato presso la società bianconera. Dunque, totalmente privo di indipendenza nei confronti della controllante. Dal 30 giugno il suo rapporto di lavoro con l’Ifi è cessato. Quello dell’indipendenza dei dirigenti dalla proprietà è uno dei cinque standard richiesti dall’Agenzia europea di investimenti nella sua valutazione “etica” delle 39 società quotate al segmento Star. In questa speciale graduatoria, la Juventus ha avuto la classificazione EE-, giungendo dietro 13 società, ed alla pari con altre 7.

Giallorossi in difficoltà

Bloomberg Investimenti 22 febbraio 2003

Roma, più "rosso" che giallo

Marco Liguori
Salvatore Napolitano

Non c'è alcun dubbio che, ad un'eventuale domanda su chi sia il calciatore più importante della Roma, la stragrande maggioranza degli intervistati risponderebbe senza esitazioni Francesco Totti. E qualcuno azzarderebbe anche Vincenzo Montella, o Walter Samuel o Emerson. Ciò che accade sul terreno di gioco è però ben diverso da quanto si legge sulle pagine dei bilanci. Perché i conti 2002 della società capitolina sono stati rappezzati soltanto per merito della vendita di una nutrita schiera di perfetti sconosciuti. Grazie alle provvidenziali plusvalenze messe a segno, infatti, una perdita operativa di 88,29 milioni di euro si è trasformata d'incanto in un utile di 786.943 euro. Merito di una piccola rosa di 20 giocatori in rigoroso ordine alfabetico: Amelia, Bovo, Brienza, Casavola, Cennicola, De Vezze, Di Masi, Farina, Fontana, Frezza, Guastella, Martinetti, Meloni, Napoli, Paoletti, Parla, Quadrini, Ranalli, Tinazzi e Vitolo. Una rosa che, unita ai guadagni realizzati con la cessione di Siviglia al Parma (9 milioni), ha garantito una plusvalenza pari a ben 95,38 milioni. E' difficile credere che, con la crisi del calcio già esplosa, a sostenere spese talmente onerose siano state società non certo di primo piano come Ancona, Cagliari, Cittadella, Cesena, Cosenza, Lecce, Livorno, Messina, Napoli, Palermo, Piacenza, Reggiana, Salernitana e Torino. La spiegazione è subito detta: a fronte di tali provvidenziali cessioni, la Roma si è impegnata verso le stesse società ad acquisti per 92,8 milioni di euro per la stagione in corso di un nugolo di 18 carneadi. E' la solita coperta corta: oggi si pone una toppa al bilancio con delle plusvalenze discutibili, appesantendo però contemporaneamente quello di domani. Uno scambio che, architettato in tal modo, non genera alcun movimento finanziario. E dunque non alleggerisce la pesante situazione debitoria. Tanto che il Collegio Sindacale ha lanciato l'allarme per il secondo anno consecutivo, invitando gli amministratori della società a “porre particolare attenzione al raggiungimento dell'equilibrio finanziario”, ed evidenziando come tale “squilibrio abbia comportato, nel corso dell'esercizio, ritardi nei versamenti di parte dei tributi”. Un allarme condiviso dalla società di revisione del bilancio 2002, la Grant Thornton, che ha richiamato l'attenzione sul fatto che “le attività correnti, con scadenza a dodici mesi, non coprono le passività a breve, con un’evidente situazione di squilibrio finanziario”. Al 30 giugno, il totale dei debiti era pari a 327 milioni, mentre crediti e disponibilità liquide ammontavano a 179,4 milioni. Una differenza pesante di 147,6 milioni per una società che ne ha fatturati 138,1. Ed era pericolosamente sbilanciato anche il rapporto tra i mezzi propri (66,93 milioni) e quelli di terzi (338,478 milioni). Inoltre, i mezzi propri sono ben lungi dal coprire le immobilizzazioni (225,72 milioni). Non a caso, il parametro ricavi/indebitamento non inferiore a 3, necessario per l'iscrizione al campionato, è stato raggiunto in extremis, grazie alla cessione di Assuncao, ad un finanziamento infruttifero e postergato di 32,7 milioni dell'azionista di controllo Roma 2000 srl, facente capo a Franco Sensi, e ad una fidejussione di Ina Assitalia di 28,68 milioni. E' la stranezza delle norme federali, che non conteggiano come debiti quelli garantiti, che restano pur sempre debiti.

Il CDA dei volontari
Nel calcio stramiliardario dei compensi stellari spunta una piccola perla del risparmio. Si tratta dei compensi molto bassi, pari ad appena 2600 euro lordi (corrispondenti alla modica cifra di 5.034.302 vecchie lire), percepiti al 30 giugno 2002 da ciascuno dei 12 consiglieri di amministrazione della Roma. Anche nel bilancio chiuso al 30 giugno 2001, il primo dopo la quotazione in Borsa della società giallorossa, la cifra si era attestata sullo stesso valore. Inoltre non sono state previste stock options né al presidente Francesco Sensi, né agli altri componenti del cda. Dunque, il compenso previsto ha un valore puramente simbolico. Tra i nomi degli altri 11 virtuosi amministratori giallorossi spiccano le figlie di Sensi, Rosella (che è amministratore delegato), Maria Cristina e Silvia. Inoltre ci sono il generale dell'Esercito Ciro Di Martino e il figlio di Cesare Romiti (romanista di antica fede) Piergiorgio. La cifra percepita da Sensi e dai membri del cda sbiadisce se confrontata con quelle degli amministratori delle altre due società calcistiche quotate, Juventus e Lazio. Nel club bianconero il vicepresidente Roberto Bettega ha ricevuto emolumenti per la propria carica per complessivi 699mila euro lordi. L'amministratore delegato Antonio Giraudo ha percepito un compenso di 1,57 milioni di euro e 157mila euro ulteriori come stipendio avuto dalla Ifi, comprensivo anche dei bonus e altri incentivi correlati ai risultati raggiunti. Quest'ultima cifra, recita il bilancio 2002, è stata data “in relazione al rapporto di lavoro dipendente a contenuto dirigenziale con distacco presso la Juventus”. Luciano Moggi ha invece incassato 1,7 milioni di euro per la retribuzione da direttore generale, a cui bisogna aggiungere altri 516mila euro per la sua carica di consigliere di amministrazione. In casa Lazio, l'ex presidente Sergio Cragnotti ha ricevuto l'anno scorso uno stipendio complessivo pari a 1,315 milioni di euro. Tra i figli del patron biancoceleste, membri del cda, la più beneficiata è Elisabetta con 178mila euro: seguita da Massimo con 116mila e da Andrea con appena 10mila euro.
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il pallone in confusione

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