Diario 26 settembre 2003
Il Nostro Inviato dopo il novantesimo minuto
Titanic Calcio
Sperando che tutto non si trasformi in sangue e botte, il nostro football si avvia comunque al disastro. Un caso aziendale da studiare
di Marco Liguori e Salvatore Napolitano
Siete un po’ a disagio per gli scontri di Avellino, per il ripescaggio della Fiorentina, per il disservizio di Sky, oltreché per le prestazioni della vostra squadra? Tranquillizzatevi: non avete ancora visto niente. Il calcio prossimo venturo vedrà sempre di più l’intervento di polizia antisommossa, tifosi «professionisti», presidenti «politici», giudici e avvocati. Tutto deriva, spiegano i nostri autori, dal perverso intreccio tra una legge che definisce le società di calcio come «società per azioni a fine di lucro»; le illusioni del mercato televisivo e la fine, prevedibile, di un concetto noto come «clausola compromissoria», ovvero una sorta di gentlemen’s agreement ormai destinato ad essere sbranato dalle mute della giustizia ordinaria. Leggere per credere. Una casistica possibile.
Assomiglia sempre di più al Titanic. Mentre il transatlantico si avvicina pericolosamente agli scogli, che fra l’altro lasciano morti giovani tifosi, a bordo si continua a far festa: tanto la nave è indistruttibile. È questo ciò che pensano, con encomiabile ottimismo, il comandante ed i suoi tanti attendenti. Franco Carraro (presidente della Figc, il governo del calcio), Adriano Galliani (amministratore delegato del Milan, ma anche presidente della Lega calcio, la Confindustria del pallone), Antonio Matarrese (vicepresidente della Lega calcio), Antonio Giraudo (amministratore delegato della Juventus), Massimo Moratti (presidente dell’Inter), Franco Sensi (presidente della Roma) appaiono imperturbabili. Il loro atteggiamento si basa sui tanti pericolosi scogli evitati di recente: il doping, i passaporti falsi, gli orologi d’oro regalati agli arbitri, i bilanci taroccati, le fidejussioni false. Qualcuno della ciurma ha però cominciato, sia pure con grave ritardo, a preoccuparsi. Ma nessuno gli dà ascolto. Come è possibile che un transatlantico di tal genere, che rappresenta una delle maggiori industrie del Paese, stia puntando diritto verso l’autoaffondamento? Come è possibile che i dirigenti calcistici, che sono tutti imprenditori di primo piano, sottovalutino a tal punto il problema?
Il cambiamento di rotta probabilmente decisivo è cominciato attorno alla metà degli Anni Novanta. Certo, già una decina di anni prima il calcio aveva cominciato a trasformarsi sempre più in un fenomeno televisivo. Accadde quando Silvio Berlusconi divenne proprietario del Milan e cominciò a trasmettere in diretta sulle sue reti televisive le amichevoli estive: costava molto meno che produrre un qualunque varietà di quart’ordine e otteneva più ascolti e, dunque, più pubblicità. Ossia, più soldi. Ma la spinta finale venne con il varo delle televisioni a pagamento. Le società più ricche decisero che era giunto il momento di smettere sia di vendere in modo collettivo i diritti di trasmissione delle partite, che di ripartire proporzionalmente gli introiti tra le 38 società di A e B. Così ebbe inizio la contrattazione singola, in modo che ciascuno intascasse i soldi relativi ai suoi diritti. Arrivò un fiume di denaro, ma non per tutti: com’era ampiamente prevedibile, i grandi arraffarono quasi tutta la torta, mentre i piccoli si sono accontentati delle briciole. In cifre, ciò vuol dire che nella scorsa stagione agonistica la Juventus ha incassato da Tele+ per la cessione dei diritti criptati delle sue 17 partite casalinghe circa 55 milioni di euro, Inter e Milan circa 50 ciascuno. Mentre Como, Empoli, Modena e Piacenza ne hanno ricevuti appena 5,6 a testa. Ma i presidenti, con lungimiranza pari a zero, hanno sempre versato tutti i maggiori ricavi nelle tasche dei calciatori e dei loro procuratori, per strapparsi a prezzi folli degli onesti pedatori. Il risultato è che il cospicuo incremento del fatturato è servito soltanto ad aggravare i buchi di bilancio del sistema. Al termine della stagione 1995-1996 la perdita operativa della serie A sfiorava i 150 milioni di euro. Due anni dopo era salita a 222 milioni. Al termine della stagione 1999-2000 era balzata a 406 milioni, per poi quasi raddoppiare in una sola stagione: 710 milioni al 30 giugno 2001. Come è noto, le società di calcio chiudono il loro esercizio al 30 giugno e non al 31 dicembre. Nel frattempo, esse erano state trasformate in «società per azioni con fini di lucro», in seguito alla legge Veltroni del 1996. Questa trasformazione, una prova di forza con il governo dell’Ulivo e di Rifondazione, fu una prova ampiamente vinta. All’uopo, per la prima volta nella storia del calcio, le società di A e B decisero di varare un calendario dei campionati monco: soltanto dieci giornate. Il governo corse frettolosamente ai ripari, varando addirittura un decreto legge per accontentare i due principali assertori della necessità di introdurre il «fine di lucro»: Antonio Giraudo e Adriano Galliani.
Il decreto 485 fu varato il 20 settembre del 1996 e convertito nella legge 586 il 18 novembre. Quanto ai presidenti delle società minori, bastò l’evocazione del termine «lucro» per farne brillare gli occhi. Ma la trasformazione in società a fini di lucro ha di fatto reso vano qualunque strumento che voglia impedire il ricorso alla giustizia ordinaria per difendere i propri interessi. Nell’ordinamento calcistico tale strumento si chiama «clausola compromissoria». Quest’estate tutti si sono resi conto che tale clausola non è altro che una sorta di patto tra gentiluomini, che dunque funziona se nessuno riceve qualche danno vero. E in un settore in cui i costi sono esorbitanti, i soldi finiti e le manovre dei dirigenti niente affatto limpide, non c’è nulla di più semplice che essere danneggiati. Qual è la soluzione che la Federcalcio ha escogitato e che vorrebbe attuare, assecondata in questo suo piano squinternato da qualche autorevole firma del giornalismo sportivo? È il rafforzamento della clausola compromissoria: ossia, se ricorri al giudice ordinario, ti penalizzo in classifica. Farebbe ridere se non fosse un piano nel quale i vertici del calcio credono: peccato che l’articolo 24 della Costituzione, che vale più di qualunque norma che possa essere varata, sancisce che chiunque può agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi. Vediamo dunque ciò che potrebbe accadere in un futuro neanche tanto lontano, ipotizzando casi non così distanti dalla realtà.
RETROCESSIONE? NO, GRAZIE! Nulla di più facile che si riproponga una situazione non dissimile da quella verificatasi quest’anno all’Atalanta, quart’ultima e retrocessa in B come da regolamento. Ipotizziamo che la federazione accetti l’iscrizione di un’altra squadra, nonostante essa non soddisfi i parametri stabiliti dalle norme calcistiche, obbligatori per poter partecipare al campionato di competenza. Il danno economico per la retrocessa è immediato: meno diritti tv, meno sponsorizzazioni, meno incassi. Una circostanza tale da poterne mettere in discussione la sopravvivenza stessa. Citare per il risarcimento dei danni davanti al giudice ordinario la federazione potrebbe essere considerata la strada ultima e obbligata per tutelare il patrimonio.
IL CONFLITTO DI INTERESSI DEL GIOCATORE-AZIONISTA. Saadi Al Gheddafi è il figlio trentenne del colonnello libico: è un giovanotto simpatico, laureato in ingegneria, che da questa stagione gioca nel Perugia. Ma è anche azionista della Juventus con il 7,5 per cento tramite la finanziaria di famiglia Lafico, nonché membro del consiglio di amministrazione dei bianconeri. Immaginiamoci cosa succederebbe se, per un malaugurato caso, si giocasse un Perugia-Juventus decisivo per gli umbri ai fini di un’ipotetica qualificazione ad una coppa internazionale, e i giocatori del Perugia si mostrassero morbidi tanto da perdere l’incontro. Il presidente Luciano Gaucci potrebbe intentare una causa per danni. Resta un dubbio: solo a Gheddafi junior, oppure a tutti i suoi giocatori o anche all’intero cda della Juventus, ritenendolo corresponsabile?
IN COPPA CI VADO IO. NO, TU NO! L’ipotesi è aggrovigliata: la squadra vice-campione d’Italia è qualificata di diritto per la Coppa dei Campioni. Ma la Covisoc, la Commissione della federazione che vigila sui bilanci delle società calcistiche e che deve verificare il rispetto dei criteri obbligatori per l’ammissione, chiude un occhio e la iscrive al campionato dell’anno successivo, nonostante non soddisfi i parametri richiesti dalle norme federali. Non si fa qui riferimento alla Lazio soltanto perché non è arrivata seconda. La terza classificata subisce un danno immediato per la mancata qualificazione diretta alla Coppa dei Campioni (vi accedono solo le prime due del campionato): infatti corre il rischio di essere eliminata al turno preliminare e deve anticipare la preparazione perché tale turno si gioca a metà agosto. Ma anche la quinta classificata subisce un danno perché non ha affatto la possibilità di accedere alla Coppa dei Campioni (per l’Italia sono previsti al massimo quattro posti). E tale partecipazione vale, solo come ingresso alla prima fase, almeno una quindicina di milioni di euro. Non è mica finita: anche l’ottava classificata subisce un danno, perché il settimo posto le avrebbe dato il diritto di partecipare alla Coppa Uefa. E naturalmente riceve un danno anche la quart’ultima, perché eviterebbe la retrocessione in serie B. Si aprirebbe così la via di una serie di richieste di risarcimenti a catena nei confronti della federazione.
UN AGGIOTAGGIO PARTICOLARE. L’aggiotaggio è un tipo di reato che riguarda le società quotate in Borsa e si riferisce all’utilizzazione di notizie riservate o alla diffusione di notizie false per indirizzare l’andamento del titolo sul mercato di Piazza Affari. Ma c’è un caso limite che li supera tutti: ipotizzando che i calciatori di una società siano azionisti e stiano per disputare una partita decisiva, essi stessi potrebbero decidere a priori il risultato negativo per la propria squadra e speculare al ribasso con le azioni in loro possesso, traendone profitto. Infatti, le quotazioni di Borsa dipendono strettamente dall’andamento sportivo, in quanto esso influenza a sua volta, e in modo consistente, il fatturato della società. In tal caso, si configurerebbe non tanto l’utilizzazione di notizie riservate, ma addirittura la creazione della notizia. Se tale circostanza venisse alla luce, è facile ipotizzare il ricorso alla magistratura da parte di un azionista che lamentasse il danno patrimoniale.
IL CALCIOMERCATO DIVENTA UNA VIA CRUCIS. Un’altra questione giuridica riguarda il rapporto tra le numerose notizie, vere o false che siano, della campagna acquisti e vendite dei giocatori. Ciò tocca direttamente le società calcistiche quotate in Borsa, che attualmente sono tre: Lazio, Roma e Juventus. Ogni informazione pubblicata dalle pagine sportive dei giornali riguardante le possibili acquisizioni oppure cessioni di giocatori può influenzare notevolmente i corsi dei titoli sul listino. Nel caso in cui tali notizie non siano rispondenti al vero, non faranno soltanto sparire i sogni dei tifosi, ma alleggeriranno i portafogli degli azionisti. Per tutte le società quotate a Piazza Affari vige il divieto di divulgare notizie riservate, riguardanti eventuali trattative: le società di calcio non sfuggono a questa regola e sono tenute ad emettere un comunicato solo nel momento dell’effettiva conclusione degli affari. Violare questa norma può costare molto caro: si può infatti incorrere nell’articolo 501 del codice penale, che contempla il reato di aggiotaggio. Tale norma prevede che «chiunque al fine di turbare il mercato interno dei valori o delle merci, pubblica o altrimenti divulga notizie false, esagerate o tendenziose o adopera altri artifici atti a cagionare un aumento o una diminuzione del prezzo delle merci, ovvero dei valori ammessi nelle liste di Borsa o negoziabili nel pubblico mercato, è punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa da 516 a 25.822 euro». In questo caso potrebbe essere ipotizzata una doppia responsabilità: quella del giornale e quella della società calcistica. La Consob, l’organo di vigilanza dei mercati finanziari, è deputata a verificare gli andamenti anomali dei titoli e a denunciarne le ipotesi di reato alla Procura della Repubblica competente. Ma l’eventuale ipotesi di reato potrebbe essere denunciata anche da un piccolo azionista, allo scopo di rivalersi per il risarcimento del danno in solido verso il giornale e la società. Ipotizziamo a tal riguardo che un quotidiano riporti la notizia riguardante le trattative di una squadra quotata per l’acquisto di un plurititolato e celeberrimo calciatore straniero. Il titolo della società salirebbe rapidamente sul listino, invogliando numerosi risparmiatori all’acquisto. In seguito, la notizia si rivela completamente falsa e il valore delle azioni crolla. Chi avesse acquistato sulle voci false riportate dal quotidiano potrebbe citarlo per farsi risarcire il danno.
SONO EXTRACOMUNITARIO E ME NE VANTO. Ogni tanto, la federazione e la Lega assurgono a legislatori e danno vita a mostri giuridici: era già successo negli anni Novanta con il blocco dell’utilizzazione dei calciatori stranieri. Arrivò un giorno un carneade di nome Bosman, ricorse alla giustizia europea ed ebbe ragione. Pare che la lezione non sia servita. Adesso c’è il blocco totale dell’utilizzo di nuovi extracomunitari. Fino agli ultimi mondiali del 2002 non se ne potevano tesserare più di tre per squadra. Supponiamo che un calciatore, a seguito di questo blocco, sia costretto ad andarsene dalla squadra in cui milita, perché, nel frattempo, è stato acquistato un nuovo extra-comunitario. Se non si volesse ridurre la questione come nel passato, e cioè trovandogli rapidamente un avo comunitario, il calciatore potrebbe ricorrere tranquillamente alla giustizia ordinaria: vale ancora l’articolo 3 della Costituzione che sancisce che tutti «hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali».
LA NEBBIA MI DANNEGGIA. È già accaduto in passato, e c’è da scommettere che accadrà nuovamente, che si siano giocate partite in condizioni di visibilità non regolamentari. Soprattutto a causa della nebbia. Eppure dovrebbe essere impossibile sbagliare: la norma dice che l’arbitro, posizionandosi sulla linea di porta, debba vedere l’altra porta del campo di gioco. Da quando il calcio è diventato un fenomeno essenzialmente televisivo, e da quando c’è chi paga per vedere le partite tramite le trasmissioni criptate, è fiorita una nuova attività: i locali pubblici possono proiettare la partita su grandi schermi. Per farlo, devono abbonarsi alla tv, fino all’anno passato Tele+ o Stream, da quest’anno Sky, pagando un canone annuo. In cambio aumentano la clientela, interessata al calcio. Ma se la partita venisse disputata nonostante la nebbia fuori dai limiti, il locale pubblico ne riceverebbe un danno economico perché nessun cliente pagherebbe dei soldi per non vedere nulla. Ne scaturirebbe una reazione a catena: causa per danni del locale a Sky, che a sua volta si dovrebbe rivalere sulla federazione, dalla quale dipendono gli arbitri.
LA CLAUSOLA COMPROMISSORIA TI COMPROMETTERÀ. Il governo del pallone sta lavorando al rafforzamento della clausola compromissoria: chi ricorrerà al giudice ordinario sarà penalizzato in classifica. E’ il solito tentativo velleitario di risolvere i problemi. Non esiste alcuna costrizione, né alcuna forma coercitiva che possa impedire a chicchessia di adire al giudice ordinario quando si tratti di difendersi da un danno patrimoniale. Ipotizzando, dunque, che qualche società ricorra e venga colpita dalla giustizia sportiva con una penalizzazione in classifica, il caso più usuale è facilmente intuibile: se tale penalizzazione dovesse modificare in modo sostanziale la classifica, facendo ad esempio retrocedere una squadra e non un’altra, o qualificando per una coppa internazionale una squadra in luogo di un’altra, la federazione verrebbe sommersa di cause per danni.
E dalla «trasferta di Avellino» comincerà un nuovo mito...
Lunedì pomeriggio, mentre chiudevamo questo articolo, è stata data la notizia della morte di Sergio Ercolano, giovane tifoso del Napoli, precipitato da una fragile tettoia di plexiglas allo stadio Partenio di Avellino, prima della partita. Come tutti ormai sanno, centinaia
di tifosi del Napoli in trasferta organizzata su diversi pullman che evidentemente la polizia non aveva notato, avevano cercato, come molto spesso succede, di entrare allo stadio senza biglietto. E, come tutti ormai sanno, quel corpo precipitato e l’ambulanza che non arrivava hanno dato origine a furiosi scontri con la polizia, che è battuta in ritirata. La partita non si è giocata, la Lega Calcio l’ha rivinviata «a data da destinarsi», ma il presidente ombra dell’Avellino, Pasquale Casillo, rivendica i tre punti a tavolino. (La speculazione sui morti è uno degli aspetti del calcio moderno, inaugurato dalla Juventus allo stadio Heysel nel 1985, quando
una partita che chiunque avrebbe sospeso venne fatta giocare e vincere, in nome dei morti juventini).
Commentando l’episodio di Avellino, tutti i giornali e le trasmissioni televisive hanno bollato i tifosi del Napoli come «bestie» e «delinquenti», chiedendo pene severe e rievocando il pugno duro dell’inglese Margaret Thatcher contro gli hooligans. Ma sarà difficile che questo succeda, perché nel mondo del calcio (e del governo dei ripescaggi) nessuno ha più autorità per imporre alcunché. Continueranno quindi le «trasferte organizzate» e si scontreranno con la subcultura delle caserme delle Squadre mobili della polizia (che hanno avuto nell’ultimo campionato 612 feriti, raddoppiati dall’anno prima), in un circolo non virtuoso in cui si rivaleggia a chi è più macho e più fascista. Ci saranno altre tacche sui manganelli e sulle bandiere, e tanto pane per i sociologi e per Porta a Porta. Avellino non è altro di uno dei tanti risultati del «calcio che cambia»; quello che bada solo ai soldi e che usa i tifosi come salariati precari: utilissimi, ma ignobili.
In questo articolo Marco Liguori e Salvatore Napolitano raccontano le trasformazioni di questo sport e prevedono un futuro di bancarotte, contenziosi, liti giudiziarie, pressioni politiche. In mezzo a tutto ciò, ogni tanto qualcuno crepa. Di Sergio Ercolano, e delle colpe della sua morte, sentiremo parlare a lungo. Forse non in tutta Italia, ma sicuramente in Campania.
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